giovedì 28 aprile 2011

Neve, nuvole, crochi (26-27/3/11)

Immagina, pensa una valle
Piena di nuvole e neve, come un bicchiere,
una valle capace di ubriacarti, una valle
Di neve e di nuvole.
E i suoi prati in discesa,e i suoi boschi
ed in fondo del fumo, qualcuno
Sta bruciando dei rami,e l’odore ricopre
Le nuvole e i crochi.
Una valle capace
di guardarti dormire,
sul suo letto
Di neve e di crochi.

venerdì 15 aprile 2011

I Discorsi dell’arte poetica di Torquato Tasso hanno una struttura rigidamente tripartita; ciascuno dei discorsi che compongono l’opera è dedicato alla trattazione di uno dei tre snodi fondamentali della composizione del poema eroico: la materia, la forma, lo stile.
Nel primo discorso, dopo aver specificato una differenza sostanziale tra l’oratore/storico, al quale la materia è offerta dalla necessità, e il poeta, che deve invece scegliere il tema delle sue opere, Tasso descrive i parametri che devono governare tale scelta. La fonte del poeta deve essere la storia, la quale grazie alla sua autorità permetterà al poeta di “guadagnarsi [...] opinion di verità” aiutando il pubblico a essere coinvolto dalla finzione poetica. Per riuscire a coniugare il verisimile, carattere proprio di ogni imitazione poetica, e il meraviglioso, componente essenziale del poema eroico, il poeta dovrà scegliere storie di matrice cristiana: in tal modo potrà attribuire le azioni straordinarie e sovrannaturali al Dio cristiano o ai suoi oppositori diabolici, creduti veri dal pubblico, e non alle false divinità dei pagani.
Inoltre il poeta dovrà avere cura di scegliere una materia che gli permetta un margine di invenzione poetica: quindi nessun soggetto tanto sacro da essere inalterabile, o tanto vicino all’attualità da non poter essere modificato senza contraddire l’esperienza dei lettori. D’altro canto l’argomento non dovrà nemmeno provenire da un periodo storico così lontano da comportare la messa in scena di aspetti culturali inconsueti o sconosciuti ai lettori, e perciò sgradevoli.
In questa prima parte del discorso sono evidenti alcuni concetti mutuati da Aristotele: in primis l’aspetto mimetico della poesia e l’importanza del verisimile: “La poesia non è in sua natura altro che imitazione [...] e l’imitazione non può esser discompagnata dal verisimile” . Una precisazione fondamentale,.però, viene introdotta solo nella seconda parte: Tasso sostiene infatti, a differenza di Aristotele, che epica e tragedia non trattino lo stesso contenuto. La prima argomentazione è questa: da uguali cause non possono derivare risultati differenti; e in effetti il poema eroico preso in considerazione da Tasso non provoca nulla di simile alla catarsi tragica aristotelica, basata sulla pietà e la paura che si originano dai colpi di scena, e sull’immedesimazione emotiva tra spettatore e personaggio tragico. Gli eroi epici non sono vicini al lettore, in quanto sono sempre personaggi esemplari, totalmente caratterizzati dalla qualità che li distingue; e le vicende che li hanno per protagonisti traggono il loro effetto proprio dalle eccelse virtù che vi sono messe in atto: coraggio, cortesia, generosità, pietà, religione. Per Tasso Aristotele tralasciò questa distinzione perché gli erano bastate le differenze di modo (diegetico e drammatico)e di mezzi utilizzati per stabilire una differenza di specie tra epica e tragedia.
Conclude il discorso una riflessione sulla quantità della materia che il poeta deve scegliere per la propria opera: quantità che deve essere tale da poter ricevere elaborazione poetica senza comportare la creazione di un poema di eccessiva grandezza; l’esempio proposto a riguardo è, come in Aristotele, Omero, il quale costruì grandi poemi intorno a trame piuttosto brevi.

Il secondo dei Discorsi inizia con una esposizione del concetto di verisimile affine a quella del nono capitolo della Poetica di Aristotele. Compito del poeta è narrare le cose “in quella guisa che dovrebbono essere state” , e non come sono effettivamente avvenute, e questa è la differenza sostanziale tra storico e poeta.
Segue una trattazione sull’argomento dell’interezza della ‘favola’ (termine che nell’uso di Tasso corrisponde all’aristotelico μύθος). Una ‘favola’, per essere intera, dovrà avere un principio, un mezzo, una conclusione, definiti seguendo pedestremente il settimo capitolo della Poetica: “Principio è quello che necessariamente non è doppo altra cosa, e l'altre cose son doppo lui. Il fine è quello ch'è doppo l'altre cose, né altra cosa ha doppo sé. Il mezzo è posto fra l'uno e l'altro, ed egli è doppo alcune cose, ed alcune n'ha doppo sé” . A donare interezza alla “favola”, poi, è il fatto che essa includa le cause e i fini di ogni azione narrata.
La Poetica è ripresa anche nell’affrontare la questione delle dimensioni dell’opera, solo che la metafora dell’animale, che Aristotele espone nel settimo capitolo della sua opera, è sostituita da un confronto tra l’opera e una nave, che dimostra come le forme artificiali (come un poema, o una imbarcazione) devono avere una grandezza appropriata per poter essere di qualche utilità: “né potrà la forma della nave introdursi nel grano di miglio, né meno nella grandezza del monte Olimpo” , e lo stesso vale per la poesia.
Il resto del discorso consiste in una lunga trattazione sull’unità dell’opera. Tasso nel definirla segue Aristotele: l’unità è un carattere fondamentale del racconto, necessario per la sua perfezione, e un’azione veramente unitaria si distingue perché conduce a un unico fine. Si passa poi a confutare la tesi proposta da alcuni suoi contemporanei, che sostengono che l’unità dell’opera non sia necessaria al ‘romanzo’ (“così chiamano il Furioso e gli altri simili” , quindi si parla del poema cavalleresco); le argomentazioni sono quattro: tali romanzi rappresentano un genere estraneo all’epica, e sconosciuto ad Aristotele; le condizioni naturali della lingua volgare sfavoriscono l’unità dell’azione, propria del greco e del latino; i romanzi sono più letti (più ‘usati’), e questo costituisce metro di giudizio per la poesia; i romanzi, composti da una moltitudine di trame e azioni differenti, offrono maggiore diletto dell’epica antica, e perciò raggiungono meglio il fine della poesia.
Contro la prima obiezione, Tasso ribadisce la ripartizione aristotelica dei generi, basata su modi, mezzi, contenuti, rifiutando una differenza specifica tra poema cavalleresco e epica classica.
Per rispondere alla seconda Tasso, pur riconoscendo le peculiarità di ogni lingua (la lingua greca adatta alle descrizioni minute e precise, la latina alla grandezza e la maestà, la toscana alla passione amorosa) afferma che di fatto l’unità dell’azione non è in conflitto con alcuna di queste specificità, e perciò è ugualmente attuabile in tutte le lingue.
Alla polemica relativa all’uso del romanzo, Tasso risponde così: alcune cose traggono valore dall’uso che se ne fa, altre, quelle fondate immediatamente sulla natura, hanno in sé delle qualità; a questa seconda categoria appartiene l’unità dell’opera, che per sua natura conferisce automaticamente perfezione.
Quanto al diletto, Tasso ammette che esso sia il fine della poesia, e che l’ Orlando Furioso fornisca effettivamente più diletto dell’ Italia liberata dai Goti (un poema di Gian Giorgio Trissino, che rispettò i precetti aristotelici ma ebbe scarsissimo successo) ai lettori moderni. Afferma però che il successo dell’opera di Ariosto non è da attribuire alla molteplicità di azioni che essa contiene, bensì alla bellezza delle invenzioni poetiche, e all’appropriatezza dei costumi descritti: due fattori trascurati da Trissino, i quali essendo di natura accidentale non hanno alcuna relazione con l’unità o la molteplicità del racconto. La varietà reca piacere, ma non era necessaria agli autori epici antichi (il cui pubblico, nell’opinione di Tasso, era meno esigente del contemporaneo per quanto riguarda quest’aspetto); è invece indispensabile per riscuotere il favore del pubblico moderno.
Tasso mostra quindi come sia possibile ottenere varietà all’interno di un poema unitario; ripropone a questo fine la tipologia aristotelica degli elementi che movimentano il racconto, esposta nell’undicesimo capitolo della Poetica: rovesciamento, riconoscimento, evento traumatico. Propone inoltre una classificazione dei racconti sulla base dell’impiego di questi tre elementi, ottenendo quattro generi che si sovrappongono parzialmente a quelli che Aristotele aveva individuato per la tragedia nel diciottesimo capitolo della sua opera: ma il passo aristotelico in questione è corrotto, e pertanto la classificazione incompleta. I generi aristotelici, ordinati dal migliore al peggiore, sono quello d’intreccio (che comprende rovesciamento o riconoscimento), di eventi, di caratteri, e un quarto genere non identificato. I generi di Tasso sono semplice, doppio (quest’ultimo dotato di agnizione e rovesciamento, mentre il primo ne è privo), affettuoso (incentrato sull’evento traumatico) e di costume.

Il terzo discorso è dedicato alla trattazione dello stile. Tasso accetta la tripartizione classica degli stili ed enumera per ciascuno di essi il difetto da evitare: lo stile sublime non dovrà essere gonfio, il medio non dovrà essere “secco” o “snervato”, l’umile non dovrà scadere nella volgarità. Situa lo stile più appropriato al poema eroico a metà strada tra lo stile medio, proprio della lirica, e lo stile della tragedia. Quest’ultimo differisce dallo stile epico perché la materia trattata nelle tragedie è più vicina alla descrizione dei sentimenti che alla magnificenza, e perché il poeta tragico parla attraverso i suoi personaggi e non in prima persona. Il lirico, invece, è tenuto a usare uno stile ornato, adatto alle sue materie, perlopiù oziose. Il poeta epico deve saper padroneggiare entrambi i registri stilistici, senza trascurare di mantenere sempre la magnificenza che gli è propria.
Tale magnificenza deriva dai concetti espressi, dalle parole o dalle composizioni di parole. Tasso compie una classificazione del lessico che riproduce quella del ventunesimo capitolo della Poetica: le parole sono “o proprie, o straniere, o translate, o d'ornamento, o finte, o allungate, o scorciate, o alterate” . Questo passo è quasi una traduzione di quello aristotelico, e per descrivere una varietà delle parole traslate –le metafore– Tasso usa lo stesso esempio di Aristotele: quello del tramonto in relazione alla vecchiaia umana.
Lo stile umile nasce dall’uso comune o proprio del linguaggio; tutte le parole estranee alla categoria delle parole proprie sono invece fonte di magnificenza, ma anche di oscurità: compito del poeta è accoppiarle ai termini comuni in modo da creare un composto “tutto chiaro, tutto sublime, niente oscuro, niente umile” . Tale concezione si trova espressa nel ventiduesimo capitolo della Poetica.
Il resto del discorso è una trattazione sul rapporto tra stile, concetti ed espressioni, che conduce alla conclusione che “la diversità de lo stile nasce da la diversità de' concetti i quali sono diversi nel lirico e ne l'epico, e diversamente spiegati” , e che “se il lirico e l'epico trattasse le medesime cose co' medesimi concetti, ne risulterebbe che lo stile de l'uno e de l'altro fosse il medesimo” ; vale a dire: più che gli oggetti rappresentati sono i concetti, “Imagini delle cose che nell’animo nostro ci formiamo variamente” , a determinare lo stile di una composizione.

I Discorsi del poema eroico, pubblicati molti anni dopo i Discorsi dell’arte poetica, ne rappresentano una versione ampliata e parzialmente riscritta.
La prima aggiunta significativa consta nel primo libro, introduttivo, che inizia con una trattazione generica sulla natura della poesia e sul suo fine (“imitazione dell’azioni umane affine di giovar dilettando” ), sui modi e i mezzi a disposizione del poeta, sulla classificazione dei generi letterari: trattazione condotta seguendo accuratamente i dettami aristotelici.
E, come Aristotele, dopo aver dato definizioni generali della poesia Tasso passa a descrivere nel particolare l’oggetto della sua opera: “il poema eroico è imitazione di azione illustre, grande e perfetta, fatta narrando con altissimo verso, affine di giovar dilettando” . Giovare dilettando sarebbe in realtà fine di ogni tipo di poesia, ma mentre commedia e tragedia “muovono meraviglia per muover riso o altro affetto” il poema eroico ha la meraviglia come fine suo proprio; perciò la sua definizione va così completata: “il poema eroico è imitazione di azione illustre, grande e perfetta, fatta narrando con altissimo verso, affine di muovere gli animi con la meraviglia e di giovare in quella guisa” .
Si elencano poi le parti qualitative del poema eroico, affini a quattro delle sei parti fondamentali della tragedia per Aristotele (con l’esclusione degli aspetti visivi e musicali): la trama (‘favola’ o μύθος), i caratteri, il linguaggio, il pensiero. Seguono le parti quantitative, anch’esse messe in parallelo a quelle della tragedia.
Conclude il libro una trattazione del verisimile e della distinzione tra poeta e storico, in difesa di Aristotele contro la critica di Lodovico Castelvetro, il quale sosteneva il primato (teorico e cronologico)della storia sulla poesia. La risposta di Tasso è imperniata sull’argomento aristotelico dell’universalità della poesia, contrapposta alla particolarità della storia.

Il Libro secondo è affine per struttura e contenuti al primo dei Discorsi dell’arte poetica, e risulta ampliato negli esempi e nelle citazioni. Particolare rilievo riceve la polemica sulla verità dell’arte, e sulla possibilità di mentire che pare sia accordata al poeta, accostato pertanto ai sofisti. Facendo sfoggio di una cultura veramente enciclopedica, con riferimenti ad autori classici (Aristotele in primis, poi Esiodo e molti altri) e cristiani (Atanasio), Tasso mostra invece come il poeta debba essere accostato piuttosto al filosofo, in quanto la sua arte non deve creare simulacri privi di realtà, ma imitazioni verisimili e universali.

Similmente, il terzo libro ricalca il secondo dei Discorsi, con un significativo ampliamento della sezione riguardante le difficoltà legate all’introdurre varietà in una trama unitaria. Innanzitutto, il poeta deve essere in grado di usare tutti gli stili, e di movimentare una trama anche molto breve con episodi; maestro in questo è Omero, e Tasso riporta qui la brevissima sintesi della trama dell’Odissea proposta da Aristotele nel diciassettesimo capitolo della Poetica.
Altra fonte di varietà sono i caratteri, e ancora Omero è elogiato per aver saputo mettere in scena personaggi da commedia senza scrivere volgarità, in un poema, quello epico, nel quale hanno ruolo fondamentale eroi degli delle lodi più elevate. Si riportano poi le condizioni essenziali nei caratteri, già poste da Aristotele: che siano buoni, appropriati, somiglianti, coerenti.
I caratteri si manifestano attraverso le parole, le azioni, le sentenze, e tutti questi fattori devono concorrere a costituire il ‘decoro’ dei personaggi: gli esempi sono Omero, attento al decoro particolare, in quanto creò molti personaggi, ciascuno caratterizzato da una sua particolare virtù, e Virgilio, che si applicò a descrivere un decoro generale, facendo risplendere di tutte le qualità il protagonista dell’Eneide.
Segue un elenco di parametri (età, ruolo sociale, nazionalità, ricchezza, etc.) dei quali il poeta deve tenere conto nel costruire il ‘decoro’ dei suoi personaggi, e una serie di circostanze (temporali, atmosferiche, spaziali) e di oggetti, il tutto corredato da esempi tratti perlopiù dall’Eneide per illustrare i modi in cui l’artificio poetico possa essere applicato alle descrizioni.

Gli ultimi tre libri dei Discorsi del poema eroico hanno come argomento lo stile.
Primo punto toccato è l’invocazione divina che apre i poemi eroici: contrariamente al parere di Castelvetro, secondo il quale essa è inappropriata in quanto “argomento di superbia e di presunzione” , l’invocazione deve rappresentare una supplica rivolta all’intelligenza personificata –adatta, quindi, anche al poeta cristiano. L’invocazione è strettamente correlata alla proposizione dell’argomento del poema, e deve essere atta a suscitare l’attenzione del lettore, ma senza fare promesse che non saranno mantenute.
Tasso affronta poi un elenco degli elementi che compongono il linguaggio affine a quella del ventesimo capitolo della Poetica: lettere, sillabe, congiunzioni, articoli, nomi, verbi. É riprodotta poi la classificazione aristotelica del lessico, già vista nel terzo dei Discorsi dell’arte Poetica, così come il concetto di linguaggio chiaro ma non sciatto, composto da una combinazione di termini propri e oscuri.
Segue una trattazione diffusa sulla metafora e sulle altre figure retoriche: secondo Tasso, Aristotele trattò solo la prima in quanto incluse tutte le altre sotto di essa.
Concludono il quarto libro una definizione della magnificenza dello stile e una collocazione dello stile epico tra il tragico e il lirico affini a quelle viste nel terzo dei Discorsi dell’arte poetica.

Il quinto libro si apre con una trattazione sul linguaggio, presentato come fattore che distingue l’uomo dagli animali e elemento indispensabile della poesia. Essa, benché arte del linguaggio per eccellenza, è subordinata alla logica: il linguaggio si situa infatti sotto il dominio del poeta e dello storico, non dell’attore, sebbene spesso sia quest’ultimo a esercitarlo.
La parte centrale di questo libro è costituita da un elenco degli effetti fonici e delle figure retoriche che accrescono la magnificenza del linguaggio poetico, con moltissimi esempi (tratti dalle opere di Petrarca, Virgilio e altri poeti). L’allegoria riceve uno spazio privilegiato, e se ne traccia una breve storia: fu conosciuta da Platone e Aristotele, ma con nomi diversi, venne impiegata come strumento per difendere Omero nel periodo ellenistico, e infine fu riconosciuta da Dante come uno dei quattro livelli di significato del testo poetico.
Chiude il libro una formulazione (“se l’epico e ‘l lirico trattasse le medesime cose co’ medesimi concetti, adoprerebbe per poco il medesimo stile. Possiamo dunque concluder che le parole seguono i concetti, e ‘l verso parimente” ) già vista al termine dei Discorsi dell’arte poetica.

Il sesto e ultimo libro dei Discorsi del poema eroico è dedicato all’idea del bello.
Inizia con una trattazione del rapporto tra il riso e il diletto che nasce dalla poesia: molti infatti hanno confuso questi due concetti, e hanno cercato di introdurre il riso in tutte le loro composizioni. Tragedia e poema eroico sono invece, per loro natura, avversi ad esso, in quanto il riso trae origine dalle cose brutte, e dalle brutte parole atte a rappresentarle, mentre il linguaggio elevato del poeta tragico o epico è fatto di parole belle. Il meraviglioso si trova in entrambi i modi di poetare, ma le cose brutte e ridicole cessano di suscitare meraviglia una volta conosciute, invece la meraviglia prodotta dalle cose belle è durevole. Con queste argomentazioni si sostiene la differenza tra ‘grazioso’ e ridicolo.
Si passa poi a mostrare da quali fonti nasca il ‘grazioso’,che si può trovare anche nella poesia epica, congiunto con il suo opposto, il ‘grave’; segue un catalogo delle figure retoriche e di suono che caratterizzano questi due registri espressivi, con esempi tratti dalle opere di Della Casa, Bernardo Tasso e Petrarca.
Viene poi brevemente descritto l’ultimo dei tre stili, quello umile, il più dotato di chiarezza e semplicità. La sua caratteristica più importante è “quella virtù che ci fa quasi veder le cose che si narrano” (alla quale si era già accennato nel terzo dei Discorsi dell’arte poetica, esemplificata con alcuni versi dell’Inferno) che si ottiene con la descrizione minuziosa dei particolari, e con l’uso di onomatopee.
Quanto alla scelta del lessico, si presentano nuovamente gli esempi opposti di Omero e Virgilio. Il primo agì con la massima libertà, usando arcaismi, barbarismi, onomatopee, neologismi: insomma tutti termini che , essendo estranei alla categoria delle parole proprie, accrescono la magnificenza del linguaggio, diminuendo la chiarezza. Virgilio invece scelse con prudenza e parsimonia i termini desueti, ma eguagliò il suo predecessore nella virtù, poco sopra descritta, di esprimere la realtà con il linguaggio. Dante è accostato ai due, simile a Omero nella libertà lessicale, ma affine a Virgilio per la brevità e per l’espressività.
Segue la descrizione dei vizi accostati ai vari stili: il ‘freddo’ o ‘gonfio’ per il sublime, il ‘male affettato’ al medio, il ‘volgare’ all’umile: difetti che, come il pregio stilistico, derivano dal rapporto tra concetti ed espressioni.
Si trattano poi i problemi relativi alla scelta del verso e alla musica. Per i poeti di lingua toscana, lo schema metrico più appropriato per l’epica è la “stanza d’otto versi d’undici sillabe” , che garantisce l’ampiezza, l’uniformità e la gravità necessarie ai concetti che il poema eroico esprime. Anche la musica più adatta ad accompagnare il poema eroico deve essere “grave e stabile” , caratteristiche che Aristotele individuava nel modo dorico.
Conclude l’opera il confronto tra epica e tragedia, che vede Platone e Aristotele contrapposti: per il primo il primato spetta all’epica, in quanto essa non ha bisogno degli attori, i quali spesso coi loro difetti rovinano l’efficacia del testo poetico; la risposta di Aristotele poggia su numerosi argomenti: innanzitutto la tragedia può anche fare a meno degli attori, potendo essere letta; inoltre fa uso di mezzi preclusi all’epica, e raggiunge più rapidamente il suo scopo: è più semplice e diletta di più. In questo caso, però, Tasso soccorre Platone: afferma infatti che la critica mossa da questo filosofo non era rivolta all’arte della recitazione, ma a un difetto poetico: nella tragedia non è il poeta a parlare in prima persona, e perciò è necessario che qualcuno lo rappresenti; musica, aspetto visivo e recitazione sono citati da Aristotele tra le parti qualitative della tragedia, escluderli rappresenterebbe una mutilazione; il testo tragico infatti è scritto per essere recitato, e nella lettura perde inevitabilmente parte del proprio valore.
Inoltre è vero che la tragedia impiega vari versi, ma essi sono da considerare minori rispetto a quello epico, il più adatto a grandezza e alla magnificenza; nel dire poi che la μίμησις tragica è più efficace si compie una imprecisione: tale efficacia deriva infatti dall’attività degli attori, ed è estranea all’arte poetica in senso stretto, nel quale è l’epica a prevalere, poiché la sua ‘evidenza’ o efficacia deriva dalla narrazione accurata, praticata dal poeta in prima persona. Infine, benché la tragedia impieghi meno tempo a compiersi, lo scopo del diletto è raggiunto maggiormente dall’epica, proprio in virtù delle sue maggiori dimensioni; e anche il fine di educare i lettori è meglio perseguito dall’epica, che mostra direttamente gli esempi di virtù, mentre la tragedia di solito mette in scena la punizione riservata a chi sbaglia. In conclusione : “Concedamisi dunque ch’in questa e in alcune altre poche opinioni lasci Aristotele, per non l’abbandonare in cosa di maggiore importanza, cioè nel desiderio di ritrovar la verità” .

Il successo dell’Orlando Furioso, poema cavalleresco che per molti aspetti sembrava inconciliabile con la tradizione classica, portò molti autori a mettere in dubbio la validità dei precetti che fino ad allora avevano guidato la scrittura letteraria. Alcuni intellettuali, come Ludovico Castelvetro, iniziarono ad avere un approccio critico nei confronti dei testi portanti di tale tradizione, come la Poetica di Aristotele, la cui auctoritas, rimasta intoccabile per molti secoli, iniziava apparentemente a dare segni di erosione.
In queste polemiche si inserì Tasso coi suoi Discorsi. E non lo fece da cieco difensore di una tradizione assodata, come pure alcuni passi della sua opera potrebbero far pensare: si legge nel terzo libro dei Discorsi del poema eroico “lasciando dunque i seguaci di Castelvetro nella loro opinione, or noi seguiamo quella di Polibio, di Dionisio, di San Basilio, d’Averroè, di Plutarco e d’Aristotele” ; questo proposito è espresso, a mio avviso, con un certo sarcasmo: l’autore moderno che osa criticare gli antichi è contrapposto a una moltitudine schiacciante di autorità, presentate per accumulo, che sembrano convalidarsi a vicenda, sottraendosi a qualsiasi possibilità di messa in discussione o approccio critico.
In effetti anche in altri passi Tasso si rivolge in questi termini ai suoi contemporanei, ma bisogna dire che è ben lungi, in realtà, dall’avere un approccio conservatore ai classici; Aristotele, forse la più consolidata delle auctoritas, rappresenta sì in molti casi il punto di partenza teorico e la base filosofica delle teorie di Tasso, ma questi non esita ad apportare correzioni quando lo ritiene necessario: la teoria della verisimiglianza viene ampliata e integrata in base alla visione cristiana della realtà, viene introdotta una differenza fondamentale tra l’oggetto della narrazione epica e quello della tragedia; ma soprattutto, si capovolge il rapporto gerarchico instituito da Aristotele tra epica e tragedia: Tasso è cosciente del fatto che nella sua epoca tale gerarchia non è più valida (tant’è che il vero oggetto dei suoi discorsi è il poema eroico) e quindi non esita a capovolgerla.
Quello di Tasso è, in definitiva, un approccio all’insegna della consapevolezza critica: il suo obiettivo è ricondurre a dei principi teorici consolidati una produzione poetica che sembra andare alla deriva, in procinto di attraversare un radicale cambiamento di paradigma; in realtà tale cambiamento non è ancora imminente, Tasso se ne rende conto e riesce, grazie al suo acume e alle sue immense conoscenze letterarie, a mostrare come le norme dettate dai classici non abbiano ancora perso la loro validità.

lunedì 4 aprile 2011

Quella notte che il tram mi parlò

Non dovresti essere a letto
A quest’ora?
Domandò il tram parlante, e mi squadrò a lungo
Col suo unico
Rotondo
Acquoso
Occhio giallo.
Che ne so? Che te ne frega?
Maleducatamente risposi. Sudavo freddo.

Mi aggrappai alla luce di un lampione
Mi asciugai della notte
Che mi bagnava
E me ne tornai a casa.

Fu quella volta che smisi di fare le ore piccole, quella notte che il tram mi parlò.