In A Room of One’s Own,
tracciando i ritratti delle più importanti figure femminili della letteratura
inglese, Virginia Woolf cita Jane Austen come esempio paradigmatico di un’epoca
in cui le donne erano pesantemente limitate nelle loro possibilità di
realizzazione economica e intellettuale. Nei primi decenni dell’Ottocento, fa
notare Woolf, le scrittrici non avevano la possibilità di viaggiare indipendentemente
o accedere all’istruzione superiore. Da Memoir
of Jane Austen, opera del nipote James Edward Austen-Leigh, apprendiamo che
Jane Austen non disponeva di uno studio privato, e scriveva nella stanza comune,
sottoposta a continue interruzioni – ma sembra che questo non abbia danneggiato
la sua scrittura: Woolf lo definisce un miracolo. Il matrimonio era l’unica
possibile forma di “carriera” aperta alle donne; e, attraverso il matrimonio,
esse andavano soggette a una vera e propria morte giuridica, cedendo al
consorte tutti i loro possedimenti e iniziando ad esistere, legalmente, solo in
quanto mogli. La possibilità di una libera vita intellettuale per le donne era
rigettata anche da numerosi scienziati e filosofi, convinti che la razionalità
fosse esclusivo appannaggio del sesso maschile. Non sorprende che, nei romanzi
di Jane Austen i personaggi maschili siano dunque associati a mobilità,
autonomia, potere e libertà, e le donne svolgano solitamente il ruolo di attori
passivi: “men are linked with entry and removal, women with being ‘fixed’“ (Power and Subversion, in Robert Clark
1994, 125).
Tuttavia, ovviamente, fin dagli albori della letteratura inglese
esistevano scrittrici, e nel corso degli ultimi decenni del Settecento era già
in corso una vasta produzione di romanzi e opere teoriche in cui si andava
affermando un nuovo tipo di idee sul ruolo della donna – parte della più larga
corrente di scritti polemici che aveva fatto seguito alla rivoluzione
americana, e successivamente a quella francese. In opere come il saggio A Vindications of the Rights of Woman (Mary
Wollstonecraft) o il romanzo Belinda
(Maria Edgeworth) il matrimonio veniva presentato per la prima volta come
un’unione tra persone moralmente e intellettualmente equivalenti; e per la
prima volta l’enfasi veniva posta sulla razionalità dei personaggi femminili,
rappresentati come esseri capaci di agire con prudenza, imparare dai loro
errori e sviluppare autocontrollo al fine di dare il loro contributo alla
felicità domestica.
Nonostante fosse di gran lunga meno scopertamente radicale di Mary
Wollstonecraft, Jane Austen diede il suo personale contributo all’elaborazione
e alla diffusione di queste teorie. Le sue eroine sono caratterizzate dalla
crescita intellettuale e morale, e aspirano a un matrimonio fondato sul
rispetto e sulla reciproca stima. Elizabeth Bennet, protagonista di Pride and Prejudice, può essere vista
come esempio tipico di tutto ciò. È presentata come “an
autonomous woman who has a power founded not in money or status but in her own
intrinsic wit” (Clark 1994, 14). Questo tipo di donna deve usare la
propria intelligenza, imparare a percepire accuratamente l’ambiente che la
circonda, e comprendere le prospettive degli altri personaggi. Come Anne K.
Mellor sostiene in Romanticism and Gender,
il matrimonio tra Elizabeth e Darcy è un esempio pratico del matrimonio ideale
di Mary Wollstonecraft, basato sull’amore razionale, la crescita intellettuale
e la comprensione reciproca.
D’altra parte, non è da sottovalutare la condizione di inferiorità che
anche Elizabeth sperimenta nel matrimonio. Il suo amore per Darcy nasce da un
sentimento di gratitudine dovuto al fatto che, senza la di lui richiesta di
matrimonio, Elizabeth sarebbe rimasta esposta a una condizione di instabilità e
probabile povertà. Questo, insieme all’aiuto che Darcy ha portato alla famiglia
Bennet, e al fatto che la proposta di matrimonio è stata rifiutata e ripetuta,
infrangendo le convenzioni sociali, pone Darcy in una posizione di superiorità
nei confronti della sua sposa. Quasi pleonastico sottolineare che lui ha
accesso alla conoscenza del mondo e al potere economico in un modo che per
Elizabeth non sarebbe nemmeno immaginabile. Come se tutto ciò non bastasse,
dopo il matrimonio Elizabeth diventa di fatto parte integrante dell’household di suo marito – lei dispone
soltanto di una piccola rendita privata, nonostante l’immenso patrimonio di
Darcy, e deve risparmiare per poter spedire del denaro a sua sorella Lydia. La
felicità domestica dipende soprattutto dal fatto che Darcy concede a sua moglie certe libertà; e a lei è richiesto di
limitarsi quando scherza col marito, il quale deve ancora “learn to be laught
at” – e non è detto che prima o poi lo impari. Mr Bennet, nell’atto di dare il suo consenso al
matrimonio, dice a Elizabeth: “I know that you could be neither happy nor respectable, unless you truly
esteemed your husband; unless you looked
up to him as a superior” (Austen 2000, 246, il corsivo è mio). Come
sostiene Mellor, “Jane Austen advocates a marriage of genuine equality between
husband and wife […] but she is honest enough to remind us that such marriages
may not exist in England” (Mellor 1993, 57).
Ciononostante, la tematica principale del romanzo è un’altra: Darcy ed
Elizabeth apprendono lezioni complementari da ciò che accade tra di loro; lui
sperimenta il potere dei sentimenti individuali, in grado di rompere le convenzioni
sociali; lei deve fare i conti con queste ultime, e con i suoi stessi
pregiudizi. Infine i due riescono a costruire un matrimonio che congiunge
gratificazione individuale e responsabilità sociale – una sorta di compromesso
tra i loro rispettivi modelli, due estremi inconciliabili: l’arroganza
aristocratica di Lady Catherine e l’indifferenza per le regole sociali che Mr
Bennet ostenta. Forse, come
sostiene Mary Poovey, questo happy end,
questa “romantic
conclusion [...] dismisses the social and psychological realism with which the
novel began” (Ideological Contradiction
and the Consolations of Form, in Clark 1994, 109). La prima opera di Jane Austen si trova in bilico tra
realismo sociale e ipotesi romantica di un nuovo modo di relazionarsi – o forse
il realismo di partenza è solo la premessa essenziale alla teorizzazione di
tale realtà alternativa, ideata a partire da esigenze concrete? Non bisogna dimenticare
i fondamenti dell’idea che Jane Austen aveva del matrimonio – una base
ideologica composita, in equilibrio tra razionalismo illuminista e culto
preromantico della sensibilità. Il suo romanzo non è classificabile esclusivamente
come narrativa satirica sulle orme dei numerosi precedenti inglesi
settecenteschi, in quanto rispetto ad essi apre nuove prospettive sull’analisi
psicologica del personaggio e delle relazioni interpersonali.
Da un punto di vista narrativo, come Julia Previtt Brown mostra in Necessary Conjunction (in Clark 1994),
in Pride and Prejudice la scelta del
consorte è impiegata come mezzo per investigare e illustrare lo sviluppo
psicologico dei protagonisti. Per i personaggi privi di sensibilità o
intelligenza – come Mr Collins, Lydia, Whickam – è relativamente semplice
mettere in piedi un matrimonio, in quanto si tratta di una questione di
ambizione, passione irrazionale o necessità. Per Elizabeth e Darcy (come per
Jane e Bingley, anche se su un registro differente) la scelta del partner è un
procedimento articolato, che implica un cambiamento radicale – una crescita – del personaggio. È un
processo fatto di apprendimento, di comprensione degli altri, di superamento
degli ostacoli (autoimposti o di natura sociale) dell’orgoglio e del
pregiudizio.
Austen, Jane. 2000. Pride and Prejudice. New York: W. W. Norton Company.
Clark, Robert,
editor. 1994. Sense and Sensibility and
Pride and Prejudice. New York: St. Martin’s Press.
Mellor, Anne K. 1993.
Romanticism and Gender. London: Routledge.
Woolf, Virginia.
1972. A Room Of One’s Own.
Harmondsworth: Penguin Books.