mercoledì 9 gennaio 2013

Avvertenza ai lettori



Non so cosa fare di questo blog. Onestamente, non credo nemmeno che sia un blog. È un posto (virtuale) dove nel corso degli ultimi due anni ho pubblicato alcune cose che ho scritto; per la gran parte poesie, qualche racconto, qualche porcheriola che ho scritto per l’università, il tutto tra alti e bassi in termini di qualità, molte ingenuità ed errori e – spero – qualche cosa ben scritta. Al giorno d’oggi, una discreta quantità di sconosciuti finisce qua cercando su google Torquato Tasso o Virginia Woolf, Michail Bachtin, Dostoevskij, Simone de Beauvoir. Non so se continuare a pubblicare qui ciò che scrivo, per la semplice ragione che mi sembra abbastanza inutile. Forse – non lo so – sarebbe meglio iniziare a raccogliere un po’ di roba, lavorarci a lungo e con impegno, e poi pubblicarla in maniera più “seria” e tradizionale. Forse è così, ci penserò.
In questo momento, come avrete capito, l’incertezza mi domina – per ora mi piacerebbe solamente che questa specie di blog (che non è un blog, no) fosse letto come un libro; una raccolta, insomma, per quanto caotica e disomogenea. Un piccolo svantaggio è che per leggere dall’inizio si dovrebbe – di fatto – partire dal fondo: ma non è così importante, spesso infatti io stesso ho violato l’ordine cronologico pubblicando più tardi robe scritte in precedenza, dimenticate e riscoperte nel mio computer oppure semplicemente rimandate tra esitazioni e correzioni; inoltre non esiste quasi mai una trama da seguire tra un post e l’altro. Il grosso pregio è che è gratis e che è su internet, per cui nessuno dovrà mai alzare dalla sedia le più nobili parti del proprio corpo al fine di accedere a tutto questo.

P.S.: il titolo di questo non-blog non ha niente a che vedere con il romanzo omonimo di David Malouf. Non so di cosa parli, non l’ho nemmeno letto. Il titolo “Verso Mezzanotte” ho scelto di impiegarlo alla fine dell’estate del 2010, quando non avevo nemmeno mai sentito nominare il romanzo in questione, per pura coincidenza.

Ottobre 2012

Alcuni appunti su Jane Austen



In A Room of One’s Own, tracciando i ritratti delle più importanti figure femminili della letteratura inglese, Virginia Woolf cita Jane Austen come esempio paradigmatico di un’epoca in cui le donne erano pesantemente limitate nelle loro possibilità di realizzazione economica e intellettuale. Nei primi decenni dell’Ottocento, fa notare Woolf, le scrittrici non avevano la possibilità di viaggiare indipendentemente o accedere all’istruzione superiore. Da Memoir of Jane Austen, opera del nipote James Edward Austen-Leigh, apprendiamo che Jane Austen non disponeva di uno studio privato, e scriveva nella stanza comune, sottoposta a continue interruzioni – ma sembra che questo non abbia danneggiato la sua scrittura: Woolf lo definisce un miracolo. Il matrimonio era l’unica possibile forma di “carriera” aperta alle donne; e, attraverso il matrimonio, esse andavano soggette a una vera e propria morte giuridica, cedendo al consorte tutti i loro possedimenti e iniziando ad esistere, legalmente, solo in quanto mogli. La possibilità di una libera vita intellettuale per le donne era rigettata anche da numerosi scienziati e filosofi, convinti che la razionalità fosse esclusivo appannaggio del sesso maschile. Non sorprende che, nei romanzi di Jane Austen i personaggi maschili siano dunque associati a mobilità, autonomia, potere e libertà, e le donne svolgano solitamente il ruolo di attori passivi: “men are linked with entry and removal, women with being ‘fixed’“ (Power and Subversion, in Robert Clark 1994, 125).
Tuttavia, ovviamente, fin dagli albori della letteratura inglese esistevano scrittrici, e nel corso degli ultimi decenni del Settecento era già in corso una vasta produzione di romanzi e opere teoriche in cui si andava affermando un nuovo tipo di idee sul ruolo della donna – parte della più larga corrente di scritti polemici che aveva fatto seguito alla rivoluzione americana, e successivamente a quella francese. In opere come il saggio A Vindications of the Rights of Woman (Mary Wollstonecraft) o il romanzo Belinda (Maria Edgeworth) il matrimonio veniva presentato per la prima volta come un’unione tra persone moralmente e intellettualmente equivalenti; e per la prima volta l’enfasi veniva posta sulla razionalità dei personaggi femminili, rappresentati come esseri capaci di agire con prudenza, imparare dai loro errori e sviluppare autocontrollo al fine di dare il loro contributo alla felicità domestica.
Nonostante fosse di gran lunga meno scopertamente radicale di Mary Wollstonecraft, Jane Austen diede il suo personale contributo all’elaborazione e alla diffusione di queste teorie. Le sue eroine sono caratterizzate dalla crescita intellettuale e morale, e aspirano a un matrimonio fondato sul rispetto e sulla reciproca stima. Elizabeth Bennet, protagonista di Pride and Prejudice, può essere vista come esempio tipico di tutto ciò. È presentata come “an autonomous woman who has a power founded not in money or status but in her own intrinsic wit” (Clark 1994, 14). Questo tipo di donna deve usare la propria intelligenza, imparare a percepire accuratamente l’ambiente che la circonda, e comprendere le prospettive degli altri personaggi. Come Anne K. Mellor sostiene in Romanticism and Gender, il matrimonio tra Elizabeth e Darcy è un esempio pratico del matrimonio ideale di Mary Wollstonecraft, basato sull’amore razionale, la crescita intellettuale e la comprensione reciproca.
D’altra parte, non è da sottovalutare la condizione di inferiorità che anche Elizabeth sperimenta nel matrimonio. Il suo amore per Darcy nasce da un sentimento di gratitudine dovuto al fatto che, senza la di lui richiesta di matrimonio, Elizabeth sarebbe rimasta esposta a una condizione di instabilità e probabile povertà. Questo, insieme all’aiuto che Darcy ha portato alla famiglia Bennet, e al fatto che la proposta di matrimonio è stata rifiutata e ripetuta, infrangendo le convenzioni sociali, pone Darcy in una posizione di superiorità nei confronti della sua sposa. Quasi pleonastico sottolineare che lui ha accesso alla conoscenza del mondo e al potere economico in un modo che per Elizabeth non sarebbe nemmeno immaginabile. Come se tutto ciò non bastasse, dopo il matrimonio Elizabeth diventa di fatto parte integrante dell’household di suo marito – lei dispone soltanto di una piccola rendita privata, nonostante l’immenso patrimonio di Darcy, e deve risparmiare per poter spedire del denaro a sua sorella Lydia. La felicità domestica dipende soprattutto dal fatto che Darcy concede a sua moglie certe libertà; e a lei è richiesto di limitarsi quando scherza col marito, il quale deve ancora “learn to be laught at” – e non è detto che prima o poi lo impari. Mr Bennet, nell’atto di dare il suo consenso al matrimonio, dice a Elizabeth: “I know that you could be neither happy nor respectable, unless you truly esteemed your husband; unless you looked up to him as a superior” (Austen 2000, 246, il corsivo è mio). Come sostiene Mellor, “Jane Austen advocates a marriage of genuine equality between husband and wife […] but she is honest enough to remind us that such marriages may not exist in England” (Mellor 1993, 57).
Ciononostante, la tematica principale del romanzo è un’altra: Darcy ed Elizabeth apprendono lezioni complementari da ciò che accade tra di loro; lui sperimenta il potere dei sentimenti individuali, in grado di rompere le convenzioni sociali; lei deve fare i conti con queste ultime, e con i suoi stessi pregiudizi. Infine i due riescono a costruire un matrimonio che congiunge gratificazione individuale e responsabilità sociale – una sorta di compromesso tra i loro rispettivi modelli, due estremi inconciliabili: l’arroganza aristocratica di Lady Catherine e l’indifferenza per le regole sociali che Mr Bennet ostenta. Forse, come sostiene Mary Poovey, questo happy end, questa “romantic conclusion [...] dismisses the social and psychological realism with which the novel began” (Ideological Contradiction and the Consolations of Form, in Clark 1994, 109). La prima opera di Jane Austen si trova in bilico tra realismo sociale e ipotesi romantica di un nuovo modo di relazionarsi – o forse il realismo di partenza è solo la premessa essenziale alla teorizzazione di tale realtà alternativa, ideata a partire da esigenze concrete? Non bisogna dimenticare i fondamenti dell’idea che Jane Austen aveva del matrimonio – una base ideologica composita, in equilibrio tra razionalismo illuminista e culto preromantico della sensibilità. Il suo romanzo non è classificabile esclusivamente come narrativa satirica sulle orme dei numerosi precedenti inglesi settecenteschi, in quanto rispetto ad essi apre nuove prospettive sull’analisi psicologica del personaggio e delle relazioni interpersonali.
Da un punto di vista narrativo, come Julia Previtt Brown mostra in Necessary Conjunction (in Clark 1994), in Pride and Prejudice la scelta del consorte è impiegata come mezzo per investigare e illustrare lo sviluppo psicologico dei protagonisti. Per i personaggi privi di sensibilità o intelligenza – come Mr Collins, Lydia, Whickam – è relativamente semplice mettere in piedi un matrimonio, in quanto si tratta di una questione di ambizione, passione irrazionale o necessità. Per Elizabeth e Darcy (come per Jane e Bingley, anche se su un registro differente) la scelta del partner è un procedimento articolato, che implica un cambiamento radicale – una crescita – del personaggio. È un processo fatto di apprendimento, di comprensione degli altri, di superamento degli ostacoli (autoimposti o di natura sociale) dell’orgoglio e del pregiudizio.

Austen, Jane. 2000. Pride and Prejudice. New York: W. W. Norton Company.
Clark, Robert, editor. 1994. Sense and Sensibility and Pride and Prejudice. New York: St. Martin’s Press.
Mellor, Anne K. 1993. Romanticism and Gender. London: Routledge.
Woolf, Virginia. 1972. A Room Of One’s Own. Harmondsworth: Penguin Books.