in certe giornate estive il sole si fa suono assordante – rumore bianco, insopportabile
che satura l’aria e il respiro. Non splende, non dà luce: abbaglia impietosamente, solidifica l’aria opaca in una
fotografia sovraimpressa, in un cemento; riduce la mente dell’uomo a una piccola bestia
agonizzante sul bordo della provinciale, mentre il traffico procede senza curarsene, lento, intento
stanco.
Sulle colline lontanissime, brune e brulle oltre al confine dell’aria incandescente
è ferma in piedi qualche spirale di fumo denso, immobile, bianco come cielo:
da qualche parte c’è un incendio, non ha importanza per noi. Un uomo negro
cammina oltre al paracarro, torna forse dal lavoro
o ci va forse. I suoi sandali schiacciano l’erba secca crepitante, che ha smesso ormai di crescere
i suoi abiti desertici, ampi, nascondono le forme del corpo alla vista – ed al sole.
Nella città nulla sembra vivo, donne velate o scollate camminano avvolte nell’odore del sudore, del catrame
bollente; qualche vecchio furioso uomo sta seduto nell’ombra, spia, si sporge alla strada: non ha
compagnia. Noi si beve qualcosa, si parla – non si riesce
a farci capire, a capire. Il suono del sole assorda e penetra
Tutto, ogni cosa, imputridisce e secca le acque del pensiero, vi pianta larve afose di noia, di insofferenza, di ignoranza – di sfortuna.
I colori si sono spenti, l’asfalto si sta sciogliendo: cammina giovane, finché puoi
fai come l’uomo negro
cammina via lontano.
21-6-12