giovedì 19 luglio 2012

In certe giornate estive il sole


in certe giornate estive il sole si fa suono assordante – rumore bianco, insopportabile
che satura l’aria e il respiro. Non splende, non dà luce: abbaglia impietosamente, solidifica l’aria opaca in una
fotografia sovraimpressa, in un cemento; riduce la mente dell’uomo a una piccola bestia
agonizzante sul bordo della provinciale, mentre il traffico procede senza curarsene, lento, intento
stanco.
Sulle colline lontanissime, brune e brulle oltre al confine dell’aria incandescente
è ferma in piedi qualche spirale di fumo denso, immobile, bianco come cielo:
da qualche parte c’è un incendio, non ha importanza per noi. Un uomo negro
cammina oltre al paracarro, torna forse dal lavoro
o ci va forse. I suoi sandali schiacciano l’erba secca crepitante, che ha smesso ormai di crescere
i suoi abiti desertici, ampi, nascondono le forme del corpo alla vista – ed al sole.

Nella città nulla sembra vivo, donne velate o scollate camminano avvolte nell’odore del sudore, del catrame
bollente; qualche vecchio furioso uomo sta seduto nell’ombra, spia, si sporge alla strada: non ha
compagnia. Noi si beve qualcosa, si parla – non si riesce
a farci capire, a capire. Il suono del sole assorda e penetra
Tutto, ogni cosa, imputridisce e secca le acque del pensiero, vi pianta larve afose di noia, di insofferenza, di ignoranza – di sfortuna.
I colori si sono spenti, l’asfalto si sta sciogliendo: cammina giovane, finché puoi
fai come l’uomo negro
cammina via lontano.

21-6-12

venerdì 13 luglio 2012

Un ricordo


Non ci tornavo da anni, e quella volta per caso mi trovai a passarci vicino. Era un quartiere dove anni prima – in un’epoca che ormai mi sembrava lontanissima – ero solito andare a suonare, in una cantina. Una zona periferica, simile probabilmente a tante altre; per me non lo era. Camminavo nel viale di tigli all’ingresso di una biblioteca da quelle parti, dove mi era capitato di dover andare, e mi venne in mente di farmi in giro fino alla vecchia sala prove. Era a qualche isolato di distanza, avevo del tempo – era tardo pomeriggio, gli impegni della giornata erano finiti. Mi incamminai quindi, senza un preciso scopo, verso quella cantina – il tizio che ci faceva suonare lì era stato sfrattato perché era senza soldi, per questo avevo smesso di frequentare la zona.
Era una direzione insolita, per arrivarci. Ero abituato, una volta, a raggiungere il posto in pullman, con la pesante custodia del mio strumento accanto. Questa volta ci arrivavo a piedi, e da un’altra direzione, per una via circondata da condomini, abbastanza spoglia e monotona – questa sì, davvero uguale a mille altre. Il quartiere si era riempito di stranieri, mi sembrò: molti di più rispetto a qualche anno prima. C’era una donna dell’est che chiacchierava al cellulare, affacciata al primo piano di fronte al tramonto e ai palazzi lontani. Un uomo sulla sessantina che avrebbe potuto essere vietnamita, o comunque di quella parte del mondo; sulla porta di un’officina, con indosso una tuta blu macchiata d’olio nero, scherzava con una bambina di forse cinque anni. E infine anche un mio connazionale, anche lui intento a parlare al telefono, mentre frugava in un cassonetto estraendone lunghi cavi colorati, e qualche altro oggetto forse utile che disponeva con cura lungo il marciapiede. Aveva usato un pezzo di ferro per bloccare il coperchio del cassone e tenerlo aperto.
Raggiunsi il corso alberato dove passava il bus che una volta usavo per tornare a casa dalle prove. Dall’incrocio dove mi ero fermato riuscivo a intravedere di sbieco il parchetto di fronte all’ingresso della cantina – era, quest’ultimo, in un minuscolo cortile; una ripida rampa di cemento che scendeva verso quello che un tempo era stato indubbiamente un garage. Avevo sentito dire che adesso ci si era installata un’opera pia, o qualche stronzata simile. Il giardino pubblico lì davanti era frequentato da vecchi, da rumorosi bambini, e da qualche gruppetto di adolescenti inquieti e molesti; non c’erano giostre, non giochi come in molti giardinetti, solo certi grandi alberi che non avevo mai saputo riconoscere, una fitta siepe per confine su tre lati, e un vialetto costellato da panchine. A volte andavamo lì a fumarci uno spinello, dopo le prove più impegnative e le sedute di registrazione. Oppure mi capitava di andarci da solo, ad aspettare seduto su una panchina, quando arrivavo in anticipo e giù in cantina non c’era ancora nessuno.
Da dov’ero arrivato potevo vedere bene le cime di quegli alberi, dorate nel tramonto. Mi guardai intorno: mi venne in mente il sentiero spesso fangoso, sotto i castagni del viale, che bisognava percorrere per arrivare alla fermata più comoda, a un isolato e mezzo da lì. Ora ne avevano aggiunta una più vicina, e avevano costruito un marciapiede e una nuova pensilina, larga e lunga, col pavimento in asfalto – una volta era sterrata e così stretta che, nelle sere d’inverno, seduto alla panchina della fermata, bastava allungare i piedi e dare un calcio ai blocchi di ghiaccio che c’erano sul bordo della strada per farli finire in mezzo alla carreggiata, e vederli trasformare dall’impatto con una macchina ai settanta all’ora in nuvole cristalline effimere e brillanti, che in molto meno di un secondo si sarebbero dissolte nel buio.
Sfrecciò davanti a me un bus che mi avrebbe portato rapidamente a casa – e passava di rado. Senza pensare corsi alla fermata e salii a bordo. Non tornai mai più alla cantina.

Maggio ‘12

sabato 7 luglio 2012

inillemarg e occirab


I tuoi frullati son parole e sarebbero
idee
macinate per la bocca molle degli umili
di tutti, ma oramai disossate, disarticolate in chiacchiere
servite sul piatto – è da dire,
d’argento – che è la tua “cultura”, fondamento
del tuo conto
(così in cielo come in terra)
in banca.

Cerchi concentrici: dentro l’intelligenza
(lucidata accessibile, presunta leggera)
un’idiozia bottegaia farisea e – dopotutto – scontata:
l’ingenuità pesta che è di casa in ogni
contemporaneità
(che ne soffoca la vita con fiori violacei
di convolvolo).

4 luglio 2012

lunedì 2 luglio 2012

Il poeta e la città (luglio 2010)


Il poeta è un davanzale
La città una poltrona
Il poeta è angosciato
La città cogliona:

Il poeta non trova risposte
La città nemmeno, però non ha domande
Il poeta è nudo, la città elegante.

Il poeta è ladro
La città una prigione
(zeppa di sogni morti ammazzati
e di carnefici ex carcerati);
Come dire che il poeta è una mosca
La città ragnatela; il bar dove ogni mattina
Per abitudine fai colazione:
il poeta
è la rivoluzione – non oggi,
domani forse,
dopodomani di sicuro;
mentre regna ovunque la città.

Il poeta ama i miserabili
Perché sono la poesia del mondo.
La città per la stessa ragione li schiaccia,

Il poeta ti guarda male, la città con gli occhiali da sole
Si nasconde nel suo stomaco pieno:
il poeta è a digiuno.

La città è cancrena, il poeta fiatone,
il poeta è un discorso interrotto
La città il brusio in fondo all’aula, mai fermo.

La città, la città è come una puttana, un albergo
il poeta una montagna:
il poeta è essere tutto
La città è avere tutto,
in definitiva la città
è il mio portafoglio, il poeta
è solo una vecchia canzone.

Il poeta
l’ombra dei rami.

E in definitiva voi, amici cittadini
Avvolgetemi nella vostra bieca commiserazione
Cacatemi addosso la vostra simpatia, la buona educazione
Ma non state a chiedermi il motivo
Per cui amo bestemmiare:
io amo le parole, le amo tutte
e non faccio che ripetere con le parole mie
quello che è sparso per il mondo:
se vedo merda dirò Merda
non bocciolo di rosa, se vedrò il papa
dirò porcamadonna, e nessun’altra cosa.