lunedì 30 aprile 2012

Dottore dottorando

Basta
Basta
Basta
Basta
Io mi sono rotto i coglioni
Di voi
E delle centinaia di nozioni
mal digerite e peggio cacate
Che andate ripetendo
E andate andate andate
avanti
Convinti
E uguali a voi stessi da decenni ormai
Perché solo questo
Solo questo
Sapete fare.
Odio il vostro sguardo.
19 aprile 2012.

sabato 14 aprile 2012

Racconto freddo 3

All'1: http://versomezzanotte.blogspot.it/2012/04/racconto-freddo-1.html
Al 2: http://versomezzanotte.blogspot.it/2012/04/racconto-freddo-2.html

Il selciato era completamente coperto di ghiaccio compatto e scivoloso, e le stampelle costringevano Gheorghe ad arrancare con fatica dietro agli altri membri della sua orchestrina di mutilati. Per strada non c’era quasi nessuno, camminavano in fretta nel quartiere latino per raggiungere un posto dove fosse possibile mangiare a poco prezzo. C’erano circa dieci gradi sotto zero, da parecchi giorni. A un tratto lo sguardo di Gheorghe cadde su un volto noto: era un cocainomane che conoscevano di vista, un tipo ciarliero e inoffensivo. Ora era completamente fuori di sé e si stava spogliando, in parte nascosto dietro a un pannello pubblicitario. Si era già tolto le scarpe ed era torso nudo. I rari passanti, solidamente intabarrati, si tenevano alla larga. Gheorghe rabbrividì a vederlo, poi passò avanti; i suoi colleghi sembravano non aver nemmeno notato la scena.
Entrarono in un locale a loro noto, e le loro chiacchiere ricaddero sull’università che era lì vicino. Georghe era il più giovane del gruppo, il più allegro e loquace: Dev’essere un bell’affare l’università, disse agli altri, che nemmeno gli davano retta; Passare giornate intere a leggere stronzate, guardare quadri di donne nude, ascoltare la musica con le mani in tasca: io ci metterei la firma. Teneva questo discorso nel dialetto della sperduta provincia da cui provenivano lui e i suoi colleghi – il locale era frequentato da numerosi studenti, meglio non parlare nella lingua della capitale. Ci metterei la firma, diceva, Da qualche parte ho sentito che li pagano persino, o qualcosa del genere, per studiare, per stare tutto il pomeriggio in uno stanzone a parlare con quaranta femmine accaldate, eh? E dava di gomito ai colleghi, suscitando niente di più che qualche mezzo sorriso. Idea del cazzo uscire con questo freddo, disse uno dei suoi. Erano uomini tristi.
La guerra li aveva portati in città. In certi casi – come per Gheorghe – era stata una mina antiuomo, alcuni altri arrivavano dal fronte. Le mutilazioni trasformavano i contadini in musicisti improvvisati – l’ultima scusa per non diventare mendicanti. I sussidi non valevano nulla, le famiglie erano grandi. Quella specie di mestiere permetteva, in cambio della dignità, di rimediare qualche spicciolo per non togliere il pane ai fratelli, ai padri, ai figli capaci di lavorare. Tra gli immigrati delle campagne avevano iniziato a nascere in modo sempre più spontaneo gruppi di musicisti di strada, minuscole orchestre che riempivano le vie centrali della metropoli di un frastuono di canzoni ripetute, sciancate, stanche. La fisarmonica era lo strumento prediletto; il repertorio si componeva di ballate famose e vecchie marce militari imparate alla svelta. I parenti, anche lontani, offrivano ai nuovi arrivati lezioni e aiuto per trovare alloggi – affittati a basso prezzo a masse inverosimili di poveracci.
Se ne andarono, dopo aver cercato di far durare il più possibile il poco cibo che erano in grado di permettersi, dopo aver cercato di sciogliere un po’ di freddo al calore torpido e fumoso della vecchia stufa del locale. Decisero all’unisono di tornarsene a casa, nel quartiere periferico dove vivevano, popolato perlopiù dai loro conterranei, e si incamminarono in fila indiana, silenziosi, per la stessa via che avevano percorso all’andata. Non si fermarono a suonare nemmeno una volta – la mattinata era stata infruttuosa e il pomeriggio non prometteva di meglio. Maledicevano a denti stretti il freddo che li piegava e che toglieva la gente dalle strade. Gheorghe notò, dove prima aveva visto il cocainomane, una vecchia ambulanza accostata al bordo della strada.

domenica 8 aprile 2012

Racconto freddo 2

All'1: http://versomezzanotte.blogspot.it/2012/04/racconto-freddo-1.html

L’impiegato era intento con la massima cura nell’attività di levarsi un callo con il temperino. L’azione gli richiedeva una postura innaturale, il gomito destro proteso in avanti metteva in evidenza un buco grande circa quanto una lenticchia nella manica del suo soprabito di lana nera; attraverso il buco spiccava il rosso acceso della sua livrea d’ordinanza, lurida e consunta. A un certo punto l’impiegato si riscosse, mi fisso e disse: Aspetta. Poi tacque, si alzò e sparì nella penombra dietro lo sportello. Nei locali faceva freddo, era comprensibile che l’impiegato portasse un soprabito nero sopra all’uniforme; fece ritorno e chiese: che problema c’è. Chiese da quanto vivevo in quella città. Poi mi chiese le mie carte. Ragionò un po’. Chiese di nuovo se era da molto che vivevo in quella città. Poi si mise a leggere attentamente le carte e fece una faccia corrucciata. Mi chiese di tirare fuori il passaporto, frugai controvoglia nelle tasche dei pantaloni e glie lo passai nella fessura sotto il vetro. Sul bancone rimase qualche minuscola fibra di tabacco e una minuscola cartaccia, roba che si annidava nelle mie tasche, e lui la respinse sdegnoso verso di me come se potesse interessarmi riprendermela. Non feci in tempo a levare di mezzo quelle schifezzuole che il tizio riprese a parlare. Diceva: Non sei allo sportello giusto, devi rimetterti in coda. Lo sportello avrebbe chiuso dopo tre quarti d’ora, se avessi dovuto rifare la coda mi sarebbe di sicuro toccato tornare l’indomani e perdere un’altra mattinata, cercai di spiegare. Lui si incupì, sembrò incazzarsi e disse: Vai qui di lato. Io raggiunsi lo sportello accanto con tutte le mie cartacce in mano, nel timore di passare davanti a qualcuno che magari era in coda dall’altra parte. Non successe. Allo sportello di lato c’era un impiegato di mezz’età, pelato, con una vecchia felpa grigia di tessuto sintetico al posto dell’uniforme. Aveva l’aria di essere più esperto dell’altro, ed era talmente strabico che era imbarazzante tentare di guardarlo negli occhi. Mi chiese da capo chi ero, cosa volevo, se era da tanto che vivevo in quella città, se avevo il passaporto. Non mi guardò mai in faccia – anche se in realtà era difficile capire di preciso dove guardasse. Alla fine sparì anche lui, cominciai a preoccuparmi, ma dopo una decina di minuti tornò e mi fece firmare delle cose e poi tutto fu finito, a posto: disse: Può andare.
Uscii con un sospiro di sollievo. La strada tutta era coperta di ghiaccio e il cielo mi accolse squallido – e c’era una merda di cane congelata, rigida sul marciapiede subito davanti all’uscita – ma ero contento, avevo fame e respiravo con gioia l’aria anche se era tanto fredda da farmi tossire. Notai un tizio che cercava di parcheggiare la sua grossa automobile il più vicino possibile al marciapiede, ma i mucchi di neve lo ostacolavano al punto che finì per prendere in pieno un cassonetto, sfondandone un lato. Il tizio scese dalla macchina, spostò il cassonetto di qualche metro, sistemò per bene il parcheggio e se ne andò tutto tranquillo.

Al 3: http://versomezzanotte.blogspot.it/2012/04/racconto-freddo-3.html

domenica 1 aprile 2012

Racconto freddo 1

Il cortile del minuscolo condominio era una folla immobile di passeggini, biciclettine, persino un monopattinino con quattro piccole ruote: comune denominatore era la neve ghiacciata che tutto ricopriva. C'era una poltrona a dondolo con su un materassino che il gelo aveva condotto a possedere la consistenza del marmo, un piumino congelato su di uno stendino. Sulla parete più lontana dalla strada, in alto, era installata una telecamera della Securitate. Il suo occhio vigile si spostava con movimenti brevi, spasmodici, da un lato all'altro del cortile; pareva l'unica cosa veramente viva. In un angolo asciutto attendeva immobile il figlio dell'architetto, vicino a un canestro da basket col suo sostegno di plastica.
Il furgone dell'elettricista sbuffò, sgommò e si arrampicò sul ghiaccio per riuscire ad accostarsi e a posteggiare, e il figlio dell'architetto andò ad aprire il cancello del cortile. Fecero due chiacchiere nel gelo, raggiunsero la porta di legno fradicio del sottoscala e si accorsero che quella specie di grotta era stata trasformata dai bambini del condominio in un deposito. Il terreno era ricoperto da palloni da calcio, da volley, da basket, anche uno da rugby, bianco, di fronte alla porta e in mezzo alla stanza. Alla parete destra erano appoggiati degli skate, messi in fila come in una inesistente rastrelliera, mentre il fondo, più largo, era un intrico di biciclette appoggiate a alcuni strati sovrapposti di scatoloni fatti a pezzi e pannelli di compensato mezzi sgretolati; a sinistra, lungo tutta la parete, i contatori, aureolati da un intrico di cavi e fili e collegamenti più o meno provvisori, e matasse di ragnatele ricoperte di polvere.
C'era una sola cosa che all'elettricista faceva più schifo delle ragnatele e della polvere: erano le ragnatele coperte di polvere. Brandelli di buio etereo ma appiccicoso e condensato, come stracciato da unghie di strega, capace solo più di pendere inerte da quel muro di cemento incrostato di salnitro biancastro – mentre il buio, altre volte, è capace di grandi cose. Bisognava tirare fuori una tripla dal pannello dei servizi generali e collegare (ehm, provvisoriamente) il contatore di un appartamento, per cui l'elettricista con gesti giudiziosi aprì la sua cassetta degli attrezzi – non la teneva chiusa a chiave, in realtà – ed iniziò ad armeggiare cercando di capire se ci fosse il salvavita inserito. Poi tentò di districarsi tra le dozzine di cavi neri e irrigiditi che attraversavano lo stretto spazio del sottoscala. Pensava ad alta voce le sue azioni, per non congelarsi e per rendere partecipe il figlio dell'architetto, in qualche maniera. Ma quello se ne fregava, lì dietro in piedi con le mani in tasca. Era difficile muoversi in quel minuscolo labirinto di buio, cavi e giocattoli abbandonati. Il tecnico sovrappensiero disse a mezza voce: Bisognerebbe trovare la via più semplice, più rapida insomma, meno complicata. Anche gli elettricisti conoscono l'arte dell'endiadi, pensò il figlio dell'architetto.

Faceva un freddo perfido, nel minuscolo condominio. Erano alloggi da poveri. Pochi minuti dopo che le voci dell'elettricista e del figlio dell'architetto iniziarono a echeggiare tra le mura del cortiletto, una porta al piano terra si socchiuse; ne uscì, per meno di uno secondo, uno sguardo azzurro affilato di ragazza. L'elettricista la scorse, fece una smorfia. Il figlio dell'architetto era troppo occupato a tenersi le mani in tasca, la telecamera in quell'istante era girata.
Bastarono pochi minuti per finire quello stupido collegamento. Il figlio dell'architetto se ne andò a piedi, dopo aver accompagnato fuori l'elettricista e dopo averlo congedato con qualche parola svelta, che si gelò in fretta nell'aria. Entrato nel furgone, l’elettricista aspettò ancora qualche minuto. Le strade erano vuote, quella mattina. L’elettricista scese. L’unico movimento era quello dell’occhio elettronico della Securitate. L’elettricista ne aggirò la visuale, percorrendo a piedi una lunga deviazione che lo portò, attraverso una sterrata piena di neve, a raggiungere il condominio dal retro. Bussò ripetutamente a una porta di servizio. Da quel lato non c’erano telecamere. Ci volle qualche secondo, ma la porta si aprì lasciando uscire lo stesso sguardo di prima, lo sguardo affilato della ragazza. Sulla soglia, l’elettricista aprì con la stessa calma di pochi minuti prima la sua cassetta degli attrezzi e sorrise alla ragazza. Attento, disse lei preoccupata, guardando i balconi vuoti dei condomini di fronte, ben più grandi e silenziosi e freddi quanto il suo. Lui sbuffò e aprì il doppiofondo della cassetta. Tra i cacciavite e le pinze spiccava il colore della copertina di un libro, un colore proibito. Lo passò rapidamente alla ragazza. Per i soldi? chiese l’elettricista, e poi capì: cercherò di ripassare, disse, e ne andò.

Al 2: http://versomezzanotte.blogspot.it/2012/04/racconto-freddo-2.html
Al 3: http://versomezzanotte.blogspot.it/2012/04/racconto-freddo-3.html