venerdì 30 dicembre 2011

La faccia di N (30 novembre, 30 dicembre)

La grande aula traboccante, ricolma di chiasso. N con la sua cravatta viola appare e gironzola. Un giovane servizievole, un tecnico, prova con discrezione il microfono e glie lo porge. Quella enorme cravatta viola è davvero ridicola, e N però la porta quasi sempre. Invece io sono vestito da straccione anche più del solito, non ho detto a nessuno che avevo la proclamazione di laurea, mi siedo per terra con un libretto di Céline in mano. N inizia il suo discorso populistico-simpaticone-menzognero tra gli applausi rimbombanti di parenti e studenti: e questi ultimi, agghindati e deliranti, aspettano la stretta di mano e il voto e la pubblica lettura dei titoli rombanti delle loro pregevoli tesi. Ma il discorso incalza: l’università, dice N, deve formare la classe dirigente del futuro. I parenti compunti applaudono potenti, immaginandosi in futuro raccomandati dai rampolli dementi: e se no a che serve avere pagato le tasse? E N prosegue citando sobriamente, spiritosamente, blandamente, ma con accenni di sdegno, il fatto che “tutto quanto sta andando a puttane e così sia”, e che tuttavia lui ci tiene tanto che il suo mestiere sia fatto come si deve, e anche che esso mestiere sia correttamente e correntemente (in valuta) valutato. E conclude con ottimismo incravattato e cravàttico, cravattèvole-carezzevole: d’altronde come potrebbero mai le cose andare male? Guardate che aula gigantesca piena e strapiena di bella gente! Di cappotti, di giacche, di tailleur con dentro persone! E assicura che tutti, in ogni caso, troveranno un bel mestiere. Cioè, l’ottantacinque per cento: e nessuno sia così lagnoso da poter pensare di finire proprio nel risibile quindici per cento di sfigati a vita: misera cifra in verità, per davvero. Dopodiché, N comincia al più presto a leggere i nomi, in quanto vuole andare a fare pranzo. Il grosso registro dei neolaureati non è in ordine alfabetico per relatore, né per titolo, né per tesista, né tantomeno per corso di laurea o per insegnamento: no, signore e signori, è in ordine per commissione, e N fa una cordiale tiratina d’orecchi (in contumacia) a quei birichini di docenti che si sono dimenticati (o: che non si sono degnati) di trascrivere il titolo di alcune tesi. Poi i nomi, si parte con i nomi! uno alla volta si alzano i pupilli, lodati e festeggiati dal parentado, dai colleghi, dai perfetti sconosciuti che li attorniano: e scendono fino alla cattedra per ricevere da N una stretta di mano e la tirata rituale che di volta in volta si accorcia e si trasforma in borbottio. E N, nonostante l’impazienza, non si risparmia i commenti spassosi che lo rendono protagonista nella sua università e nei nostri cuori. Io mi sto per appisolare, ho persino smesso di leggere, mi inebetisco guardando i miei colleghi sfilare uno dopo l’altro uguali, identici. Sono tutti elegantissimi, io al confronto sembro davvero un barbone, merda: avrei dovuto pensarci e vestirmi almeno decorosamente. Passano un paio di conoscenti, che non sapevo nemmeno si stessero laureando: e hanno pure voti sorprendentemente mediocri. Passa una ragazza carina che sembra una francese (giuro, e non so perché) il che per un attimo mi risolleva l’animo, poi mi accorgo di quanto siano leziosi i suoi tacchi e la sua faccia educata e mi spavento. Passa un ciellino, persino (odioso! Dio Madonna!) che sembra una magica proiezione di ciò che N avrebbe potuto essere una quarantina (una cinquantina?) di anni fa. A un tratto mi accorgo che sta chiamando quelli che sono passati con la mia stessa commissione. E a un certo punto tocca a me. Mi alzo e, le mani in tasca, mi avvicino alla cattedra. N mi squadra sospettoso ma finemente ironico: si sofferma sul mio maglione e sui pantaloni sfilacciati, mi punta contro il viola della sua cravatta: “se era estate” dice “ venivi in canottiera?”. Il pubblico ridacchia cordiale: non di me, con me! Io sorrido e non rispondo (non ho parole, per lui!), me ne frego, aspetto che inizi a parlare. “Allora, ecco il voto, ecco il titolo, su Tizio Sempronio, addirittura, l’hai fatta!”, e mi porge la mano. Tutto quanto è talmente ridicolo che mi sembra il caso di dare almeno un contributo. Quindi non gli stringo la mano già tesa e mi volto verso il pubblico, mentre inizia timido l’applauso (applaudire sempre, applaudire comunque, e non si sono nemmeno accorti che c’è qualcosa di strano, mentre N sospetta già, vecchio volpone). Mi rivolgo alla platea e faccio un inchino: un inchino sguaiato, triviale, da violinista di ristorante. Sono ancora chinato, mi guardo la punta delle scarpe, l’applauso scroscia incredulo: e non riesco proprio a immaginarmi come sia in questo momento la faccia di N.

giovedì 8 dicembre 2011

Senza titolo

La cimice, minuscolo pentagono verde, svolazzò cicciona e rimbambita tra i clarinetti. Finì quasi in mezzo ai tromboni, poi inaspettatamente virò a sinistra passando sulle teste dei sax baritoni fino a brancolare pesantemente nell’aria di fronte a un flicorno. Il musicista la vide, soffiò, strabuzzò, scantonò, sbabbiò, poi cristonò (nella mente), dimenticò di riprendere fiato e alla fine a forza di divincolarsi gli parve di aver schivato lo schifoso insetto. Non appena l’incalzare delle note gli lasciò un attimo di tregua, abbassò lo strumento per dare un’occhiata all’ora (aveva fame, e un po’ di sonno), e lo sguardo gli ricadde sui pantaloni: ai quali la grassa cimice si era aggrappata. Inorridito, scalciò, mandando la bestiola a ruzzolare fuori rotta, senza possibilità di sterzo o planata. Il fetido insetto strusciò qualche giacca e colletto e braga, rotolò all’impazzata, si schiantò sul pavimento e frenò la sua folle scivolata a pochi millimetri dalla suola gigantesca di un gigantesco sax contralto. Il flicorno ghignò. La scarpa, nera ed enorme, andava su e giù a ritmo di musica: e la cimice era sul ciglio, sul bordo di quel quattro quarti incessante di mocassino, che l’avrebbe inesorabilmente spiaccicata e ridotta a proiezione ortogonale di sé stessa sul pavimento lercio. Il flicorno ghignava e righignava, che capolavoro! Ricominciò a suonare, pensando con gioia truce al momento in cui il sax contralto avrebbe sentito il profumino dell’insetto: che stava per finire la sua esistenza in modo così poco dignitoso. Tanto più che la verdaccia, come tartaruga rovesciata, zampettava disperatamente per rialzarsi, ma senza accorgersene non faceva altro che muoversi, strisciando sul dorso, verso la suola nera della sua fetida morte. Il trionfo del flicorno era ormai quasi certo. E invece la cimice, giunta ormai tanto vicina al micidiale mocassino da poterlo toccare, si riscosse: proprio quando la suola polverosa, gigantesca, discese su di lei, sei esili zampette verdi vi si avvinghiarono con forza. La cimice salì insieme alla scarpa: si era attaccata sul lato. Il flicorno si abbacchiò: la schifosa verde cominciò a salire su, girando intorno al tallone, poi la caviglia del sax contralto, abbarbicandosi in tornanti sulla calza nera: poi sparì.

domenica 4 dicembre 2011

sabato 3 dicembre 2011

Dicembre (2009)

Primo Dicembre
Corso Giulio Cesare
Alle sette del mattino
È nebbia blu, fari gialli, tronchi neri;
Foglie d’ombra per terra, le case non esistono.
Saranno distese e montagne nere
E campi di neve illuminata dalla luna.

Tre Dicembre
Lottiamo contro il nulla, come i giocattoli
Che vedi sparsi negli orti abusivi
E nei mucchi di immondizia
Presso la tangenziale.

Sedici Dicembre
Il sole cola come cera
Sull’orizzonte delle cinque,
ha le scarpe rotte
Ma cammina in fretta.

giovedì 1 dicembre 2011

Dicembre (2008)

Dicembre è un airone
Che presso a una strada
Punta al cielo il suo becco,
e resta immobile, grigio
e nessuno lo nota.
Dicembre è una noce
spezzata con le mani
E mangiata da in piedi
Davanti al camino.
E Dicembre è foschia, neve bassa
E un ritmo swing appena accennato
E un sorso di grappa, e un riso selvaggio
Dicembre una lacrima di vento freddo,
camminando nell’immensità
della più misera periferia.
Dicembre è un mese povero, lontano da ogni primavera
Ed è un mese libero, di là da ogni pioggia e fortuna,
vaga nei campi, raccoglie la brina con mani capaci
e la sparge e decora i bordi dei fossi
e i piedi degli alberi.

Riassumendo Dicembre,
da vecchio maestro qual è
trascorre il suo tempo in tramonti fugaci
e cita vecchie, vecchie poesie
per raccontare il suo freddo anche a te.

domenica 20 novembre 2011

Mesi-anni, 14 febbraio 2009

Il cielo rifletteva sulle cose anche a quei tempi
ma non me ne rendevo conto ancora
non c’era mai tempo, già, e se c’era
passava
come una sbronza.
Non avevo le corde e la faccia
Che adesso io ho, e non avevo,
non avevo maglioni distratti, né la patente,
in compenso dormivo, e ignoravo felice
che fare domani.
Son passati dei mesi
Come fossero anni.

sabato 19 novembre 2011

Dell’insediarsi, nella pubblica opinione e nell’immaginario collettivo, del governo Monti

Il freddo ha qualcosa di demoniaco. È da settimane ormai che l’autunno fa il suo mestiere con metodo e costanza, e ogni giorno e ogni notte il freddo si ripete. Ogni alba oramai vede i prati coperti di brina, e la foschia offusca lo sguardo del sole. La vita si fa gradualmente più sonnolenta, più nascosta, e il letargo si prende tutto. Le oche, stolide nel loro piumaggio che le rende impermeabili al gelo e all’umidore, hanno un unico problema: riempire lo stomaco. L’erba ha smesso di crescere, non esiste più frutta: l’unico cibo è quello che arriva, una volta al giorno, dalle mani di XYZ. I cui vecchi scarponi misurano il prato quotidianamente, lasciando tracce nella brina. C’è ancora qualche lavoretto, di tanto intanto, e pigramente XYZ porta a termine quel poco che rimane. Il freddo ha qualcosa di demoniaco, di deliberatamente ripetitivo, ma correre per il prato o portare carichi pesanti scalda più della stufa e dei cappotti foderati di pelliccia. Per questa ragione XYZ si sente singolarmente pieno di zelo, ben disposto allo sforzo, quando lavora, e dato che c’è anche molto tempo e poco da fare ci si può divertire, dando sfogo libero all’energia inutilizzata. E le stupide oche. XYZ avvista un bel cardo pieno di spine, che ovviamente quelle altre non hanno toccato. Il cardo è appiattito nell’erba fitta, geloso della sua vita rotonda e spinosa, non commestibile, ed è largo ormai una trentina di centimetri. XYZ lo considera. Solleva le foglie da un lato con la punta della scarpa; poi con due calci sinceri lo sradica. “Eccolo qua!” lo raccatta, con la cautela di non pungersi; lo lancia con grazia oltre al recinto delle sceme. Che ci si buttano: quando dall’alta nera figura di XYZ cade un qualsivoglia oggetto più grande di uno sputo, che sia mela marcia o gerla di avanzi e bucce rovesciata sull’erba, di norma è roba che si mangia. Ancora più preziosa, nei giorni in cui le uniche alternative sono le filiformi foglie d’erba ingrigite dalla noia di novembre o la razione quotidiana, scarsa, del solito grano. E così è la grassa, la più vecchia, ad avvicinarsi per prima al cardo divelto, oltraggiato. E ne prende una bella beccata, prima di accorgersi. Le altre si avvicinano, circondando curiose l’inutile coacervo di spine. Immasticabile. La vecchia grassa è fatta fessa e non vuole crederci. Osserva il cardo rovesciato mentre pian piano la sua fiducia svanisce, e tuttavia non vuole crederci. Muginando ancora la foglia che ha già strappato, irta di spine. Le altre restano immobili. Lei continua a esaminarlo.

domenica 6 novembre 2011

Febbraio 2008: ero davvero... come dire... ero davvero.

C’era una cascina, buttata lì in mezzo alla campagna. Era vecchia, alcuni dicevano di più di cent’anni. Era un casolare come tanti, mezzo diroccato, vicino alla Statale: nessuno se lo sarebbe mai comprato, nessuno sapeva che fine avessero fatto i vecchi proprietari. Ed ora da bravi ragazzacci di campagna (campagna, non periferia, campagna) andiamo a curiosare nell’edificio abbandonato… "Stoppa un attimo, i ragazzi di campagna da dove li hai presi?" Due balle così, mi devi fare… "I ragazzi normali staranno tutti a giocare alla Playstation, o a scuola…" ‘Fanculo! "E sentilo, ragazzi di campagna, e l’istruzione obbligatoria?" E va bene, va beh, facciamo che son dei giovani a spasso con la vespa, per i campi, ok? In giro in mezzo al niente, senza troppi perchè, senza stare a pensare all’università, o al lavoro. Passare una domenica pomeriggio tra amici, senza nessuno a rompere i coglioni, godersi la primavera che pare arriv… "Stronzate, tutte stronzate. Trovami tu uno che a quell’età non ha niente di meglio da fare che andarsene a spasso da nessuna parte. Con quel che costa la benzina, poi, e il precariato, già, senza nessuna preoccupazione…" E chi cazzo ci devo mandare, in ‘sto casolare benedetto, secondo te? Una masnada di quarantenni rampanti, in giacca e cravatta, tante belle automobili. Non sono degli stra-ricchi, sono dei ricchi-e-basta, ed hanno capito il giro: si mettono tutti assieme e fanno l’acquisto in cooperativa, terreno incluso, glie ne fa un baffo dei prezzi degli immobili, ne pagano un po’ a testa, poi pigliano, ristrutturano e ci fanno l’alberghetto! La Statale lì accanto? Chissenefrega, ci mettono un filare di cipressi e non si vede più. Tiè, il mio casolare sperduto nella campagna è diventato un agriturismo per inglesi, crucchi e americani pieni di soldi. Hanno messo pure una piscina, e poi il ristorantino e la sala giochi, contento? Ora nella vecchia cascina ci passano tante belle famigliole, ci son parcheggiate davanti tante belle automobili, ci son su internet tante belle foto, nei siti delle agenzie di viaggi… tanta pubblicità, tanti soldi che girano, e due o tre contadini che si rivoltano nella tomba. Ma è così che va il mondo, dopotutto, no?

venerdì 4 novembre 2011

28/10/2008

La città stasera è una rabbia, radunata sotto la pioggia,
pugni chiusi e voci in coro;
la periferia un’ansia muta,
una calma di zenzero,
fa freddo, sempre più freddo.

Per i corsi lastricati, di fronte ai portici,
passano voci, striscioni, musica forte,
l’eco arriva lontano, la pioggia continua
sul fiume distante, gelido e nero,
fa freddo, sempre più freddo;

Si salta, si grida, le auto si fermano
la musica cessa e adesso si suda, un megafono
tossisce qualcosa, e riparte il corteo,
da lì in mezzo al freddo
un fiume che scotta.

giovedì 3 novembre 2011

La fine del Nano

Il Nano, quel nano maledetto.
Ricopriva la carica di Primo Consigliere del re e, vista la completa imbecillità del suo diretto (e unico) superiore, era di gran lunga l’uomo più potente all’interno delle istituzioni. Lo sapevano tutti, lo si sapeva bene, che in realtà i complessissimi ingranaggi della Nazione e della Società erano mossi da ben altri oscuri personaggi. Ma il Nano rimaneva influente. Era un simbolo, ma di natura diversa dal re. Il re era come un vecchio gonfalone appeso in una sala di palazzo; certo, aveva uno stuolo di maggiordomi incaricati di tenere alla larga tarme, ragnatele e paparazzi, ma la sua utilità e il suo potere erano del tutto trascurabili. Era solo il simbolo di una cosa morta, di una grandezza passata e irrecuperabile, incensata nei vocabolari araldici ma dimenticata dal mondo e dalle cose: ormai tagliata fuori dal flusso delle cause e delle concause da cui si genera “il ritmo strano della vita”. E invece il Nano era simbolo della “grandezza” presente, cioè della miserabile capacità di ricavare la maggiore ricchezza con il minore sforzo possibile. Con tutti i mezzi, ovviamente: non esiste legalità o morale che tenga quando l’unica cosa sacra è il porco denaro. Che può anche essere lurido, ma non puzza mai. Il nano pervenne al suo ruolo per vie impreviste, impervie ed ignorate, facendo il parassita, impossessandosi di ruoli sempre meno trascurabili, nutrendo piccole clientele fino a fondare un suo personale potentato. La sua figura compatta, grassottella e tappa (non era un vero nano, era solo bassino), il suo cognome alacre e borghese tipico della città più alacre e borghese della nazione, sembravano fatti apposta per permettergli di sgusciare indenne dagli intrighi di corte; e ora si poteva immaginarlo a zompare in libertà tra diplomatici e presidenti stranieri, collezionando figuracce infami. Era davvero odioso, un simbolo odioso di un potere pervertito – e “non esistono poteri buoni”, figurarsi un potere talmente corrotto da intralciarsi da solo, con un simile indegno approfittatore al suo vertice: una vera schifezza.

Ora, S. F. era un ragazzo taciturno.
Tendente alla solitudine, quasi sempre serio, leggeva parecchio e pensava di più. E parlava quasi niente, ma ciononostante a tutti noi era sempre sembrato un tipo a posto. Non avevamo davvero idea di cosa sarebbe successo.
Lo conoscevamo poco – difficile poter dire di conoscerlo d’altronde – ma probabilmente eravamo le persone con le quali aveva maggiore confidenza. Sì, ci vedevamo a lavoro. Ogni tanto, nel parlare, si lasciava andare a un sorriso dolorante, vacuo, ma quasi mai rispondeva alle battute. Nessuno lo sfotteva però, aveva l’aria troppo triste, e poi siamo sempre stati persone serie anche noi altri. Faceva il suo lavoro con perizia e precisione, impuntandosi talvolta con insistenza su qualche particolare trascurabile, ma sempre con discrezione, e senza mai causare problemi.
E, insomma , quando iniziò a frequentare il poligono di tiro non lo raccontò a nessuno. Sì, si iscrisse a una di quelle… sezioni del tiro a segno nazionale, ecco. A noi non importava nulla, figurarsi, poteva anche dircelo. Insomma, si sbattè per prendere una licenza di porto d’armi per uso sportivo. Me lo immagino, a caricare la pistola e prendere la mira tutto preciso, intento, in mezzo ai fanatici del tiro al piattello e ai rudi pistoleri di provincia coi loro abiti paramilitari. Probabilmente furono duri con lui, per le sue braccia magre e i suoi vestiti usati da fratellino minore. Non so quanto tempo ci mise, a conquistarsi il rispetto degli energumeni, ma di certo diventò un discreto tiratore.
Poi cominciò ad andare ai comizi. Un paio di volte anche fino alla capitale. E sospetto che qualche volta si assentò pure da lavoro, per fare ‘ste trasferte. E iniziò a seguire i politici, i ministri. Anche il Nano. A chiedere l’autografo. Qualche idiota c’era sempre, a fare cose del genere: i fan sfegatati del Governo. Mezzi maniaci. E S. F. si mischiò con quella gente: gli uomini delle scorte, i gorilla, presero a riconoscerlo, a parlarci. Credo lo trattassero come un demente, me li immagino a ridacchiare dopo che lui aveva salutato estasiato il ladrone di turno. Ottenne pian piano la loro fiducia, di sicuro, probabilmente perché nessuno di loro lo guardò mai negli occhi. Io invece a volte lo facevo.

Fu a un grande comizio, come ce n’è tanti. Un comizio del Nano nella sua città natale. S. F. c’era.
S. F. si era abituato ad andare ai comizi con la pistola sotto il braccio, in una fondina nascosta che si era comprato in qualche negozio da sbirri di quelli che aveva iniziato a frequentare da quando andava al poligono. E mentre porgeva la mano a un ministro o a un consigliere o a un segretario, mentre ammiccava entusiasta alle guardie giurate della scorta, beh, aveva quell’acciaio freddo sotto l’ascella. Ci si era abituato, in preparazione di quella fatidica volta; per qualche ragione scelse proprio quella, e di occasioni ce n’erano state decine: credo che S. F. avesse bisogno di abituarsi all’idea, di filmare venti volte la scena nella sua testa, prima di girarla una volta per tutte.
Il comizio: le solite bugie, i ministri cafoni, l’orchestra frustrata, le ballerine, la gente in festa (quanti stipendiati?), e la polizia a controllare lo scorrere liscio dello spettacolo. Uomini in borghese, cecchini sui tetti, facce cordiali di grassi poliziotti appoggiati alle moto. Nel casino S. F. corse verso il Nano, dopo la fine dello show, aspettando che, come altre volte, il Primo Consigliere lo riconoscesse in mezzo alla folla di facce instupidite dall’applauso, dalle luci, dal caos. S. F. sapeva cosa fare. Qualche fotografo inquadrò l’ultimo sorriso bonario, falso e consapevole del Nano, l’ultimo atto della sua recita. Nell’istante in cui il suo sguardo contento e luccicante incrociò quello di S. F., oltre le transenne, il cannone era già puntato: una vecchia Parabellum raccattata chissà dove, troppo grande, troppo pesante in cima a quel debole braccio avvolto da un impermeabile frusto. Sei colpi sparati a distanza ravvicinata trasformarono il glorificato glorioso Nano in un cupo ammasso sanguinante, accartocciato tra le gambe sprovvedute dei gorilla armati fino ai denti.
La mente di S. F. si svuotò. Ebbene, quello era il momento atteso da mesi. Distruggere un simbolo, distruggere il Simbolo, ecco cosa voleva. Non gli importava di uccidere una persona, non gli importava della teatralità, della galera. Già, finire in una cella. Gli avrebbero dato l’infermità mentale, o lo avrebbero intervistato? Lo avrebbero, in via del tutto eccezionale, giustiziato? O avrebbe scritto un libro, nelle lunghe veglie dell’ergastolo? Il paese sarebbe andato avanti, non c’era da pensare che il Nano contasse così tanto, non avrebbero applicato la legge marziale… Quello che per S. F. era importante era la morte del simbolo. Era far tremate tutti coloro che a quel simbolo guardavano come un modello, tutti quelli in doppio petto, coi portafogli pieni e la grossa macchina nera, a sgambettare tra politica e alta finanza in cerca di non si sa che cosa, accumulando capitale e potere. La gente che aveva trascinato il Paese nel fango, ecco cosa pensava S. F., viaggiando per la sua città e vedendo crollare pian piano tutto ciò che gli era sembrato renderla degna di essere abitata e vissuta. Solo un evento come la morte del Nano, dell’uomo più solido del Paese, avrebbe potuto smuovere il torbido in cui tutti vivevano, far tremare i colossi di marmo – ridicoli, patetici colossi che arrivavano al metro e settanta grazie ai tacchi dei mocassini di marca – da cui tutto, ogni vita, dipendeva.
Questo aveva pensato S. F., nei lunghi mesi in cui imparava a sorridere di fronte ai suoi tiranni, e a premere il grilletto nel momento giusto e a non cedere al rinculo. E quando finalmente il caricatore fu svuotato, e il Nano ormai inerme sparì nella coltre difensiva e nera della scorta, in un frapporsi di elegantissimi gorilla, S. F. poté non pensare a nulla. Il Nano era sempre senza giubbotto antiproiettile, era uno dei suoi vanti e, una volta tanto, era anche verità. Già, questo fu l’ultimo pensiero di S. F.
La scorta personale del nano era pesantemente armata, ed erano sul luogo anche parecchi agenti delle forze di sicurezza. Di preciso non si è mai saputo chi fu a sparare; probabilmente fu fatto d’impeto, senza pensare che tanto la pistola dell’attentatore era rimasta senza munizioni, e che una volta eliminato il bersaglio era rimasto ben poco da temere; le guardie erano tutte bene addestrate, il colpo fu preciso e fatale. S. F. sentì solo più un calore immenso, improbabile, tanto forte da coprire qualsiasi dolore. Poi qualcuno spense la luce.

martedì 25 ottobre 2011

Un caso esemplificativo della maniera in cui, nella moderna e còlta società occidentale, svolgesi mediamente il diportarsi della pubblica opinione

Allora mettiamola così. Il branco delle oche ha trovato un varco nel recinto e se l’è svignata alla ricerca delle poche erbe commestibili, superstiti nell’autunno. Gli uccelli, coglionissimi, stanno sparsi per il prato – ma non troppo distanti gli uni dagli altri – a ciancischiare e biascicare in mezzo alle foglie secche e alle merde ogni sorta di commestibile che sia finito loro sotto il becco. XYZ passa a controllare, sacco di grano in spalla, e se ne accorge. Cristona, va alla baracca a prendere una pertica, scavalca il recinto. Fruga con al pertica nei nidi delle oche, in cerca di uova. Svuota il sacco nelle mangiatoie, riempiendole fino all’orlo, poi lo pigia in una delle capienti tasche del giaccone vecchio. Di corsa – a mezza corsa, al galoppo – raggiunge il buco nel recinto, ci passa attraverso, rincorre le oche terrorizzate battendo le mani, e usando la pertica per dirigerle quando serve; finché non sono tutte rientrate. Le bestiacce si sparpagliano, i maschi impriapiti pàperano* i loro sguaiati versacci per il prato come vana petizione a difesa del ventre molle del branco, delle ciccione femmine. Mentre quelle ancora scappano, e i maschi caracollano inutili, tutti impauriti all’idea di averlo ancora galoppante alle spalle con quella maledetta pertica, XYZ si china ad aggiustare col fil di ferro gli strappi nella rete di plastica da cui le bastarde sono riuscite a uscire. Il branco si ricompatta, razzola dubbioso, si guarda intorno; istintivamente torna verso i nidi. La femmina più vecchia, più grassa, ha occhi azzurri lustri e lucidi, più lucidi delle altre, e vede per prima le mangiatoie riempite di fresco: è uno starnazzo, una corsa. I rozzi piedi delle oche pedalano affannati sul prato, i loro culi bianchi ondeggiano alla massima velocità: fino all’ingozzo, a bersi il grano giallo fino ad affogare. XYZ sta già andando via, si è girato e non le vede, nemmeno ci pensa più; mentre nella foschia iniziano a cadere le prime gocce di pioggia, miste all’odore di fumo di un fuoco di sterpi acceso da qualche parte…
*”impriapiti” “pàperano” sono sfacciati prestiti gaddiani, perdonabili esclusivamente nella misura in cui mi servono da pretesto per incoraggiare (a spintoni) i 3-4 capoccioni di lettori di questo blog a inoltrarsi nelle ben più degne (infinitamente) opere di Carlo Emilio. E a ciò in definitiva vi esorto con tutto il calore. Scontatamente consiglio, per un primo approccio, L’Adalgisa o Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, ma anche i racconti di Accoppiamenti giudiziosi potrebbero andare: seppur dotati di un valore esemplificativo dell’opera e della poetica gaddiana assai minore rispetto ai capolavori, sono assai più brevi e leggibili con minore sforzo e fatica. La cognizione del dolore e Eros e Priapo sono due autentici ossi duri, per appassionati. Vi auguro una buona lettura.

venerdì 21 ottobre 2011

I figli dei lazzari

Guardo i figli dei lazzari. Alti, slanciati, la loro magrezza non contiene nulla se non il più stretto essenziale. Vestiti poco, di nero; le loro grosse scarpe robuste e impolverate vagabondano per la città senza meta. Così come i loro corpi forti, veloci, senza lavoro, sono soltanto inutili bocche perennemente affamate. Gli resta il desiderio di avere tabacco e bottiglie e “qualche deca” al mese ed è tutto ciò di cui hanno bisogno per tirare a campare: ormai, l’unico obiettivo della loro vita. Il futuro è la voragine in cui è precipitato tutto quanto il resto; il lavoro è per chi ce l’ha già, per chi c’ha la bottega del babbo, per chi c’ha l’estero per andarci a studiare. Per i morbidi figli dei signori, col gilè lavato di fresco. Quanto diversi, loro, i loro corpi, fatti di muscoli cresciuti dalla palestra e dalla piscina, quanto diversi dai muscoli brutti spuntati per la strada come more nei rovi. Guardo i figli dei lazzari stare in piedi sotto il peso del sole di agosto, fare casino in piazza. I loro giochi ancora infantili confinano con la rissa e la rivolta. E il loro volto, sotto barbe incomplete ma già decise e mal rasate, mostra una determinazione invincibile a vivere. Una fame. E non basta a lenire la fame il lavoro alla giornata nel cantiere o nel mercato, quindi il loro volto si copre di una provvidenziale sciarpa o di un passamontagna nello scippo o nella rapina, o nell’arrotolare i lunghi cavi di rame rubati alla ferrovia, da rivendere. O nell’inutile rivolta di lanciare una tegola, un pezzo di mattone, sugli impeccabili berretti dei gendarmi nella ressa quando ci si avvicina al palco delle autorità. Ed eccoli i figli dei lazzari, a sputare per terra quando passa il vescovo, alla maniera degli zingari. A bere birra alle otto del mattino. A sgomitare tra le braccia forti degli sbirri, quando per l’ennesima volta li trascinano in questura. E i volti appiattiti dalla fame che fanno capolino tra le sbarre delle regie prigioni, di conseguenza. O i volti riempiti di rabbia, rigonfi, nelle liti per strada.

Lazzaro, s. m., parola nata a Napoli da genitori spagnoli e borbonici ("lazaro", lacero, miserabile), per designare la teppa o proletariato urbano miserello e perlopiù disoccupato. Da cui "lazzarone".

giovedì 22 settembre 2011

X (maggio '11)

La nausea prevale sulla fretta, il paragrafo resta interrotto, spezzato, ucciso. Il caldo soffocante lo squaglia, poi lo coagula. Resto a fissarlo, completamente ebete. Vado a comprarmi una schifezza alle macchinette. Inutile. Merda. Il posto è una merda, sono nella merda fino al collo. Esco, nient’altro da fare.
Fuori dalla biblioteca il sole secca la nausea, mi appendo al vento come un gabbiano, cammino veloce. Il tempo di riavermi e mi abborda una sui sedici anni; le noto tra le braccia, come un cazzo di bambino, il giornale della lotta comunista. Lei stride: primo maggio, guerra in Libia, contro! telegraficamente. Alzo al cielo una bestemmia, come una bandiera, come una lancia, in resta! la uso per trapassare la sventurata (che non risponde). Me la svigno, protetto dall’impunità del mio passo frettoloso di passante puntuale. Un passante qualunque.
Dei coglioni in giro con quegli stronzi dei loro cani al guinzaglio, che fanno un baccano micidiale. Coglionaggine onnipervasiva: la coglionaggine che tutto domina e impregna emerge come isola dalla pozzanghera nera della mia emicrania, battuta dal sole primaverile nelle vie argentate della città, insopportabili. Appare una giovane dall'espressione completamente animale e si siede, un tipo la accosta e le offre un bicchierino fumante preso al bar e cominciano con voci di roditori a ripassare le guerre sannitiche: mentre il tipo si gratta i coglioni nella maniera più sfacciata e la donna-sorcio ne ridacchia; un tale dall'aria normale si avvicina a una manifesto sbiadito degli 883 e ci scrive o disegna qualcosa con dei pennelli per le mani -così pare, non riesco a vedere- e si allontana facendo come dei piccoli minuscoli segni della croce verso la sua opera; e poi mi viene incontro un paio di mocassini con infilati dentro i piedi di un cretino, che ha perlomeno la buona idea di scostarsi e lasciarmi passare; il tutto in una manciata di secondi. Menate su menate. Traffico medio da pomeriggio in centro. Mentre attraverso la grande piazza il vento mi dà l’impressione di aiutarmi: vento in poppa: ma arriva più di lato. Da davanti e di lato. Però sorprendentemente l’impressione è quella di un vascello, vento in poppa. Poi cambia direzione. Mi si struscia sui pantaloni ma senza fare fusa. Anzi sembra un cane che fa le feste; troppe; dopo un po’ rompe i coglioni.

venerdì 16 settembre 2011

La strada tranquilla (fine di giugno, 2011)

La strada è tranquilla
Disseminata di dossi
Non sopporta autotreni, non vive tensioni
Ed ha spento i lampioni, di giorno è di polvere, di notte rugiada
Grilli, lucciole, l’erba che cresce. La strada è tranquilla e di giorno la polvere
Di notte il silenzio
Ti impastano i piedi e non vuoi camminare
Non puoi camminare, per la strada tranquilla
Senza fermare
Il pensiero o la voce
A seguire la luce o la mente
dell'arte sottile della memoria.

martedì 13 settembre 2011

P. prende per la prima volta in vita sua la corriera, e fa uno strano incontro

[...]

Nel caldo appiccicoso di una mattina, qualche giorno dopo, Peone si ritrovò così a salpare da solo verso la città a bordo di una fetida corriera. Non l’aveva mai presa prima ed era dubbioso, chiese all’autista se effettivamente la corriera portava a T*****. – Si, va bene – disse quello, fissando assorto la strada, mostrando molto zelo nel suo mestiere. L’autista aveva una barba molto curata, e l’aria di essere un ragazzo davvero serio e dabbene, tanto che fece su Peone un certo effetto e lo convinse a non disturbare più una figura così importante: anche se, francamente, si sarebbe aspettato una risposta più cordiale.
– Sarà l’uso della città– si disse il Nostro. L’autobus pesantissimo partì con una certa fatica, iniziò a solcare il mare di campagna, i campi e le rimesse come onde. Ogni tanto si fermava nel bel mezzo di qualche minuscola borgata, per caricare viaggiatori e farne scendere altri. Dopo un’ora di viaggio il paesaggio iniziò a cambiare, la strada si ingrossò, apparvero più camion e automobili, a scapito dei carretti e dei viaggiatori a piedi o in bicicletta. Fu con una certa meraviglia che Peone avvistò, lontani, i gabbiani di una discarica, e fu colpito da un odore che faceva sembrare quello del letame il migliore dei profumi. Ma accadde un fatto ancora più stupefacente; in uno di quei paesi che segnano il confine della città, quelle terre dubbie dove le villette a schiera e gli orti abusivi si mischiano a quello che resta dei campi, dei canali e dei terreni incolti, salì un passeggero che attrasse immediatamente, con la sua sola presenza, tutta l’attenzione di Peone. Era una ragazza di venticinque anni, bionda e alta quanto il nostro eroe, se non di più. Aveva ‘aria di essere straniera. Indossava esclusivamente dei cortissimi pantaloncini, e una maglietta: entrambi i capi di abbigliamento erano di un viola robusto; portava inoltre una gigantesca borsa dalla quale spuntava la parte superiore di uno scatolone col simbolo della nota marca di detersivi D**** - Peone ci mise un po’, realizzare questo, perché a leggere non era mai stato tanto bravo; e inoltre concorrevano a distrarlo le braccia e le gambe nude, e i capelli della bella. La donna parlava al cellulare,e Peone si permise di origliare la conversazione di un personaggio di tale spessore. Purtroppo la discussione si svolgeva in una lingua completamente incomprensibile, e la ragazza non faceva altro che rispondere:
- Da.
- ...
- Da.
- ...
- Da-aaa...
L’ultimo “Da” usci strascicato assieme a una bolla di cingomma che la fanciulla stava, nascostamente, masticando: Peone ne fu talmente esterrefatto che sussultò, attraendo su di se l’attenzione. Un grosso uomo coi baffi ridacchiò, la ragazza decisamente sembrava indifferente, l’autista fissava la strada e si lisciava la barba; gli altri astanti continuarono tranquillamente a non esistere.

domenica 24 luglio 2011

Il peruviano

Il Peruviano era pressoché sempre ubriaco. Un giorno accolse in modo indimenticabile l’inquilino del piano di sotto: lo aspettò nascosto dietro al portone, e quando quello iniziò ad aprire per mettere dentro la macchina il Peruviano saltò fuori urlando insulti nella sua lingua, lanciandogli contro chissà che immondizia. L’inquilino si incazzò, lo minacciò di botte, poi lo chiuse fuori, e quell’altro girò per una mezz’ora sui marciapiedi, formulando vaghe invettive contro i perfetti sconosciuti che incontrava. Lo riportammo dentro senza troppa fatica anche perché, a parte qualche scatto di furore, quand’era ubriaco sembrava dormisse in piedi, borbottando Mierda e simili cose. Oltre a ubriacarsi, dormiva. Un lavoro, mai. Mangiava poco. Era basso, abbastanza tozzo. Il più lo spendeva in tequila, ed era fastidioso quando cercava di rubare. Agli insulti ci eravamo abituati, ce ne fregava un cazzo. Credo rubasse soldi in giro, da qualche parte doveva pur prenderli. A noi cercava solo di rubare la birra, e, più di rado, del cibo. Non so, non sapevamo, quale fortuita circostanza del mondo lo avesse prelevato dalla sua terra natia e deposto in un alloggio di due stanze in un quartieraccio della nostra decente città. Non parlava la nostra lingua, se non per lo stretto indispensabile. Nei suoi occhi si leggeva il vuoto, un desiderio animalesco e completamente indefinito, ormai addormentato e forse dimenticato. Come se un tempo, milioni di anni fa, avesse desiderato con tutto il cuore qualcosa di impossibile. Sepolto sotto epoche di sbronze, di polvere e di niente si poteva ancora intravedere il suo sogno, come le rovine di un villaggio oltre l’acqua di un mare limpido, come la terra nera di un bosco sotto un autunno di foglie secche. Dimenticato e irrecuperabile, funzionava solo quel tanto che bastava a farlo alzare ogni mattina, ma una volta in piedi lo lasciava da solo in compagnia del difficilissimo compito di non cadere nel vuoto fino al suo prossimo incontro con il letto.

venerdì 15 luglio 2011

Il libro

La copertina è rossa, rigida
La carta gialla, più sul bordo
E ha l’odore dolce di chiuso, invitante
Di una cantina di segreti. Qualche pagina è piegata ad orecchia.

Il libro esiste da una cinquantina d’anni ed ha vagato chissà dove finché io
Tanto più giovane di lui
Non l’ho catturato ad una bancarella
con l’esca di pochi euro.

Diventeremo amici.

15-7-11

sabato 9 luglio 2011

Notizie dal fronte V

Invece quell’altra volta venne in visita il Re, addirittura. Cena coi dignitari in un hotel a cinque stelle vicino alla stazione. Una massa di straccioni si radunò per dargli accoglienza, scoppiarono tafferugli coi più politicizzati. Le camionette della polizia, richiamate dalla provincia, bloccarono un quadrato di vie intorno all’albergo del Re. Il marasma si trasformò in corteo, i vagabondi della stazione come al solito si unirono: perlopiù gruppetti di ubriachi, e solissimi malati di mente che imprecavano contro tutti e cercavano di farsi arrestare per avere una notte al caldo gratis. La gente voleva entrare nell’area protetta, i poliziotti correvano intorno come per tappare ogni buco. Alla fine ci si fermò in corrispondenza di una larga via porticata, bloccata da due blindati parcheggiati di traverso. Davanti, una schiera di scudi e manganelli. La folla li circondò, ma nei primi minuti non partirono cariche. Da sopra ai caschi blu sporgeva un palo con in cima una telecamera. Qualcuno buttò un petardo sotto gli scudi, tra le gambe dei poliziotti, e il palo della telecamera saltellò frettolosamente, spostandosi di tre metri. Subito, un botto assordante. Poi la carica. D’un tratto mi trovai accanto a un uomo in borghese, ma col casco e il manganello: –Ma vaffanculo! – me la svignai, quello rovesciò con uno spintone un vecchio barbuto, e qualcuno come per fermarlo gli sventolò sul muso un’inutile bandiera rossa attaccata a un’asta di plastica. Il tizio fece una faccia perplessa, poi tornò tra i suoi colleghi, che si erano già ricompattati nel piccolo spazio tra i due blindati. Intorno a me qualcuno intorno sanguinava, ma non avevano lanciato lacrimogeni. –Che gioco del cazzo – pensai ad alta voce, e in televisione sarebbero apparse le dignitose scene della cena, e lontano, in un angolino, la folla urlante oltre le barriere.

mercoledì 29 giugno 2011

Notizie dal fronte IV

È lì che me ne accorsi. Ero in mezzo ai lazzari affamati, urlanti – Pane, pane! Non mi era mai capitato prima: di solito stavo alla larga dalle risse, mai piaciuti i manganelli né i lacrimogeni né i sampietrini. E invece quella volta eccomi in prima fila, come se la cazzo di transenna metallica che proteggeva l’ingresso del palazzo fosse stata una calamita, non so perché. A un metro da me, oltre la transenna, nell’ombra dei portici scuri davanti al palazzo del Governatore, la parete di facce da poliziotto. È lì che me ne accorsi: le facce dei lazzari spalancate dalla rabbia, le facce degli sbirri pinzate tra gli scudi e i luridi berretti baschi: facce uguali: stesse occhiaie bistrattate, frustate-frustrate dalla miseranda vita (mio fratello è figlio unico perché non ha mai trovato il coraggio di operarsi al fegato e non ha mai pagato per fare l'amore e non ha mai vinto un premio aziendale), stessi occhi sciolti nell’afa bollente della calca, degli stivaloni, di un pomeriggio privo di direzione e di significato. In mezzo alla folla un vagabondo sollevò una bottiglia di limoncello, le urla pure iniziavano a squagliarsi nel caldo umido, un poliziotto rise al telefono, gli altri mollarono gli scudi e si appoggiarono alla transenna e lo stesso fecero i lazzari, troppo esausti per gridare ancora; in mezzo al casino spuntò qualche faccia conosciuta: attaccai a chiacchierare. Lo stesso sguardo, nelle facce dei lazzari e degli sbirri: che questione imbarazzante, mentre il Governatore senza dubbio teneva banco ancora una volta al Consiglio. Un’impiegata di palazzo si sporse dal balcone con una macchina fotografica, suscitando cori di insulti e atti osceni in luogo pubblico. Ma la tensione stava definitivamente calando. Qualcuno si sedette sul paraurti di un tram bloccato dalla calca, l’autista scampanellò assordandolo e facendolo sobbalzare tra le risate della piazza. Il corteo capì che sarebbe morto se non avesse ricominciato a muoversi,e si pensò di andare alla stazione. A fatica il gracchiare di un megafono fece alzare la gente che si era seduta, un grappolo di caschi blu si defilò dall’ombra, sotto un fuoco di grida di scherno. Gli uomini in uniforme, stanchi e sudati, accatastarono gli scudi nei bagagliai di tre o quattro automobili scalcagnate e anonime e se ne andarono a proteggere qualche altro posto. Noi ci incamminammo nella polvere, sotto il sole; giravano bottiglie e sorrisi, e qualche slogan stanco. Passando sotto una caserma, cadetti affacciati; grida – Buttati! Merde! E le finestre a chiudersi. Mi accorsi che alcuni poliziotti, che ci precedevano di una cinquantina di metri, avvisarono delle donne in uniforme del corteo in arrivo, e quelle se la svignarono in una via laterale. Arrivammo infine alla stazione,e ci fermammo lì davanti fermando macchine, carrozze, tram. Non sapevamo se entrare, non sapevamo quanta polizia c’era dentro. Il corteo si spiaggiò nel piazzale lì davanti, si rannicchiò come un rospo, i vagabondi della stazione si avvicinarono a punzecchiarlo incuriositi. Ci ripensai, agli sguardi identici: gli identici sguardi dei berretti baschi e delle urla arruffate, tutti insieme aggrappati alla schifosa transenna come se fosse l’unica cosa che, in quel momento, ci teneva appesi alla realtà.

sabato 18 giugno 2011

La saga di Pisapia, Parte Quarta

Pisapia non ci fa più amici...

Miracolo a Milano. Il centrosinistra vince e Berlusconi incassa sportivamente. [Ma quando!?]

Pisapia non posta più per scaramanzia.

Pisapia è il nipote del sergente Garcia.

Pisapia ha messo il Guttalax nella minestra di Gigi d'Alessio.

Pisapia inaugurerà la statua di Karl Marx sulla neo Piazza Rossa (ex Piazza Duomo).

L'urlo di Munch: Munch ha saputo della vittoria di Pisapia.

Picasso ha dipinto Guernica ispirato dalla Milano guidata da Pisapia.

Pisapia ha ispirato Bob Dylan. [Eh?]

Pisapia ha militato nei Duran Duran. Ha ispirato Simon LeBon per il pezzo Wild Boys.

Pisapia mi sta crashando facebook.

Pisapia ha studiato dizione da Giggi D'alessio.

Gigi d'Alessio si rifiuta di esibirsi se alla chitarra non c'è Apicella.

Pisapia ha cancellato tutti i concerti da qua alla fine del mandato.

Red Ronnie mi spamma la pagina coi suoi filmati della Moratti... a Ronnie, è inutile...

Per colpa di Pisapia grandinerà sul concertone imperdibile di Gigi.

Se a Pisapia chiedi se si ricorda almeno uno dei dieci comandamenti ti risponde "Ognuno per se e Dio per tutti!"

Pisapia ti citofona a casa e dice che sono i Testimoni di Geova!!!

Pisapia farà entrare in centro solo Ferrari a metano.

Pisapia a me mi ha imparato l'itagliano.

Pisapia mette le paste nei cocktail serviti al Roxy Bar.

Pisapia mette lo yacht in vendita su ebay a 0,01 cent e poi ti mette 990.000 euro di spese di spedizione.

Pisapia ci ha rubato il referendum sul nucleare!!!

Pisapia ha convinto Bossi a invitare Gigi D'Alessio per sostenere la Moratti.

La Moratti ha capito tutto dei tuoi discorsi su giovani e la musica rock emergente, brava! Dicono che questo, come si chiama? Gigi D'Alessio che deve suonare domani sera in chiusura alla sua campagna elettorale sia tanto bravo e rocchettaro quanto sconosciuto...

Pisapia è iscritto al Partito Interno di 1984.

A provocare disordini allo stadio Marassi di Genova prima della partita Italia-Serbia è stato Pisapia... Ivan Bogdanov era solo una copertura per mascherare la vera identità slava di Pisapia.

Pisapia è parente di Gigi d'Alessio. [Commento uno: È il suo agente. Commento due: Pisapia È Gigi d’Alessio.]

Pisapia non mi fa studiare.

Pisapia va dai vegani a dire che la soia, il tofu, il setan, il grano e i cerali hanno una vita propria... [Commento: Il tofu ha gli occhi! E sono UGUALI a quelli di Pisapia!]

PISAPIA VIVE NELLA BAT-CAVERNA CHE HA COSTRUITO IL FIGLIO DELLA MORATTI...

Pisapia, non potendosi permettere un pony, blocca la crescita ai cavalli in tenera età.

Pisapia è un passerotto che svolazza nel cielo. [immagine di favolosa realtà irenica, in stridente contrasto con gli sproloqui apocalittici che ne costituiscono il contesto]

ANSALONI E' DI UNA POCHEZZA CULTURALE DISARMANTE: colpa di Pisapia?

‎Pisapia mi ha cambiato canale alla TV... e ha messo rai3!!!

Pisapia dà il guttalax ai piccioni di Piazza Duomo.

Pisapia ha fatto la soffiata per far beccare Bin Laden.

Pisapia scrive le barzellette patetiche del cucciolone.

Pisapia spaccia bustine di zucchero ai diabetici.

Pisapia ha rubato l'account a Red Ronnie per postare i video della Moratti.

Pisapia ruba le autoradio... ma quelle con le cassette!

Pisapia è quello che paga il caffè espresso con una carta da 100 euro...

Bin Laden non è morto, perché in realtà Bin Laden è Pisapia. E Pisapia è bello vivo.

Pisapia è andato ai funerali di Welby ed ha detto alla moglie "Mina, non sai quanto mi dispiace. Dev'essere stata una cosa improvvisa. Stava così bene!"

domenica 12 giugno 2011

La saga di Pisapia, Parte Terza.

Scoop di "Libero": beccato da un abile fotografo il maligno folletto Goblin, mentre volantinava per Pisapia. Già allertato lo stupefacente Spiderman per bloccare l'ometto verde.

Inoppugnabili fonti scientifiche incastrano il candidato di estrema sinistra a Milano, Pisapia: è certa la sua responsabilità nello scioglimento dei ghiacci polari.

Pisapia metterà la tassa sulle mutande rosse. Sarà obbligatorio esibire il suddetto accessorio in maniera visibile ma che non arrechi degrado al decoro per poterne identificare la pigmentazione. (insomma ci toccherà indossarle sopra ai pantaloni).

Pisapia non vede l'ora di vincere per togliersi dai fan di Red Ronnie.

PISAPIA SI PUO' FARE!!!!

Pisapia è stato espulso dalla P2 perché disonesto.

A Pisapia è preso un coccolone mentre si scopava Luisa Corna. [http://it.wikipedia.org/wiki/Luisa_Corna e si noti, la voce di wikipedia inizia con “artista poliedrica”]

Matteo Salvini è il road manager di Gigi D'Alessio. [http://it.wikipedia.org/wiki/Matteo_Salvini ]

Quando Pisapia ha visto Bruce Lee voltare il suo sguardo feroce verso la cinepresa, temendo per la sua incolumità, ha fatto un balzo ed ha tirato con forza la spina del televisore.

Pisapia nudo a mani in tasca. [questa, me lo si consenta, è grandiosa]

Pisapia e' il piu' tamarro dei Jersey Shore. [http://it.wikipedia.org/wiki/Jersey_Shore_%28reality_show%29 ]

Pisapia è la reincarnazione della Monna Lisa.

‎"Pisapia è un suadente anticristo" (su "Tempi" giornale vicino a CL).

Se Red Ronnie s'è innamorato della Moratti è tutta colpa di Pisapia.

Pisapia è gay,non come Red Ronnie...

Le mura di Pompei cadono... perché Pisapia non sta mettendo la malta tra le pietre da più di 2000 anni!!!

Pisapia permetterà la costruzione di qualche palazzo in mezzo alle roulotte.

Pisapia fa la pipì in piscina.

Pisapia fa le supercazzole agli operatori di call center!

Su 20000 fan, 18000 vorrebbero cagarti in testa. [Commento: “Perché agli altri 2mila non gli scappa”]

Pisapia vota Moratti.

Pisapia costringe Red Ronnie a postare video tristissimi.

Pisapia fonde parzialmente il nocciolo.

Pisapia e' il vero responsabile del degrado di SUCATE... [vedasi l’antefatto alla Saga]

Pisapia è quello che ti manda in prigione senza passare dal via a Monopoli.

Pisapia ha rubato la dignità di Red Ronnie e l'ha nascosta nella macchina di cui parlava la Moratti!

Cazzo Red, se la Moratti perde sei finito, te ne rendi conto?

Pisapia bagarina i biglietti per il concerto gratuito di giggggi d'alessio.

PISAPIA introdurrà la legge del taglione.

Red a questo giro passerai dal Roxy Bar al proxy sul computer, per nasconderti e navigare in pace.

Pisapia ha hackerato la pagina di Red Ronnie e mi posta in bacheca i video pro-Moratti!

Gigi D'alessio artista emergente.

Pisapia, dopo una notte di baldorie in discoteca con Lele Mora, ha ucciso Barbie!

Pisapia abita in una roulotte 4per4.

Secondo un sondaggio i due candidati per Milano partono alla pari. Secondo un altro sondaggio Berlusconi ha rotto i maroni.

Pisapia ha fatto sbroccare Red !!!

Siamo orribili!! Abbiamo fatto saltare il concerto di Milano del mitico giggggi...

Con Pisapia gli acquisti alla Rinascente avverranno solo con la tessera annonaria.

Berlusconi aizza il suo elettorato. Votare ai ballottaggi, al mare per i referendum.

Pisapia sta istigando la Moratti a esercitare il diritto di recesso su Red Ronnie.

giovedì 9 giugno 2011

La saga di Pisapia, Parte Seconda

Pisapia fa le puzze in ascensore e poi fa il vago.

Pisapia vuole laureati (con rimborso spese simbolico) come spugnette leccafrancobolli alle poste milanesi.

Pisapia scatrafugna lo scrapio e poi lo stannizza.

Pisapia mette l'amianto nei Tampax.

Pisapia ha rapito il pinguino e ha rubato il camion pieno di kinder pinguì.

Pisapia ha proposto l'abbattimento del muro del pianto...

Pisapia ruba le offerte in chiesa per costruire la moschea utilizzando come muratori gli spacciatori e gli zingari.

Pisapiah Akhbar! Pisapiah Akhbar! Pisapiah Akhbar! Pisapiah Akhbar!

Pisapia alla testa dell'esercito di mori/slavi/bolscevichi/drogati/puttane e spacciatori : Al mio segnale scatenate l'inferno!!!

PISAPIA NON ALZA MAI L'ANELLO DEL WC.

Pisapia in tutte le chiese sostituirà l'ostia con le scaglie di kebab.

Pisapia ha dato lezioni di dizione a Jovanotti.

Pisapia è quello che stamattina, quando ha portato indietro al negozio ''Intimissimi'' tre magliettine di cotone sintetico per farsele cambiare con 3 di puro cotone, ne ha ricevute ben quattro, pagando la minima differenza di € 1,90, cifra che ha saldato con una carta da 100 €! ('sti comunisti! c'hanno tutte le fortune del mondo, ma non s'accontentano e fanno gli stronzi ).

Pisapia permetterà ai bambini cristiani di frequentare la scuola dell'obbligo... ma solo se imparano l'arabo e si adeguano agli usi del Corano.

Per colpa di Pisapia il Duomo sentirà le canzoni da lametta del giggione nazionale.

Il prossimo agente di Pisapia sarà Lele Mora.

Pisapia ha i tarzanelli rasta!!!

Pisapia invia lo spam.

Pisapia ha portato Critina D'Avena a LiveMi.

Incredibile: a Milano fotografati Pietro Gambadilegno e la Banda Bassotti in Piazza del Duomo con striscioni inneggianti a Pisapia. Il servizio integrale è disponibile su "Libero".

Pisapia ha tenuto nascosta la stele di Rosetta per quasi due millenni.

Pisapia, quando pensa che la Moratti ha "rivoltato la città", rivolta la colazione.

Red in una settimana hai raddoppiato gli amici su FB. Ma quanta gente che ti vuole bene...

Pino Scotto vota Pisapia.

Bin Laden non è morto, è vivo e vegeto e ha deciso di prendere una posizione netta sul ballottaggio per la poltrona a Sindaco di Milano...

Pisapia ha fatto riunire i Take That per suonare al suo concerto.

Pisapia ha cancellato il triathlon di Milano.

Pisapia ha ucciso l'Uomo Ragno.

Red Ronnie è Pisapia con la parrucca rossa!

Anche il malvagio Dottor Destino si pronuncia a favore di Pisapia. Confidiamo nell'intervento dei Fantastici 4.

Pisapia ha inventato Windows MESSENGER.

Pisapia ha nascosto il tasto "non mi piace più" da questa pagina!

Pisapia userà le strutture dell'Expo 2012 per il MiSex.

Per sconfiggere Pisapia al ballottaggio sono necessari aglio e paletti di frassino

Pisapia rubò la slitta di babbo natale e si fece le scarpe con le renne.

Pisapia ha detto che avrebbe comprato una casa a Pantelleria (ma non l'ha fatto).

Fonti certe ("Il Giornale"), rivelano che persino il perfido Joker si è purtroppo pronunciato a favore del terrorista Pisapia. Il capo della polizia però è rassicurante: quasi certo il provvidenziale intervento di Batman e Robin.

Pisapia è il pusher che ha venduto la droga a Brian Jones e a John Belushi.

Pisapia quando ordina la bistecca al sangue succhia il sangue e ci lascia la bistecca.

Pisapia ha i baffi come Stalin (io li ho visti).

domenica 5 giugno 2011

La Saga di Pisapia, Antefatto e Parte Prima

Antefatto

Riassumendo, odiavo Milano. Centro culturale-economico nazionale. Vale a dire: posto dove la gente è costretta ad andare per lavoro, per le mostre o i concerti; posto del cazzo. Ci sono andato poche volte, alcune d’estate. Giri attorno al duomo, cercando di resistere al caldo. Nelle gallerie del centro, boutique di lusso, piccioni morti, barboni stremati, carponi. Intorno: centinaia di giapponesi. Poi ci andai per un concerto al Conservatorio. Un parcheggio in periferia, la metro in ritardo, traffico. Mi sembrava uno dei luoghi più disperati del mondo, un qualcosa di incomprensibile che un giorno mi sarebbe toccato affrontare.

Fu così che, quando iniziarono le amministrative, me ne fregava poco. Pensavo di sapere, bene o male, come sarebbe andata. Quel giorno rientrai tardi, non ebbi tempo di ascoltare la radio. Su FecciaLibro la scritta di qualcuno: se il PD non fa cazzate vince a Milano. Eh? Guardai le proiezioni. Cazzo, era vero.

La compagine minchiocratica che aveva governato la città per gli ultimi decenni andò nel panico e si buttò con tutti i mezzi a scongiurare il disastro. Ne derivò una pagliacciata di dimensioni non indifferenti: basti ricordare l’epopea di Sucate* o i vari deliri sugli islamo-zingari comunisti dei centri sociali punk –e, notate, ‘sta volta a dare il la fu proprio il più rincoglionito: Bossi.

Un relitto degli anni settanta, prima pioniere del rock in Italia e oggi ridotto a guitto malefico del piccolo schermo, pensò bene di dare il suo fondamentale contributo. Red Ronnie, lo pseudonimo del tizio. Da un po’ di anni regalava preziose consulenze al Comune di Milano, e in cambio la Moratti (Batman, Stanlio) gli regalava mensilmente qualche decina di migliaia di talleri estrapolati dalle casse statali. Nel bordello generale di interventi massacranti –massacranti le balle dei telespettatori– contro il povero Giuliano, Red Ronnie si pronunciò all’incirca così: se vince Lui me ne vado da Milano. Niente di eclatante, una roba simile non basta a scalfire la noia del solito. E cascava pure in mezzo a decine di sproloqui ben più impestati e iperbolicamente anti-pisapiani del Governo. Eppure, per qualche ragione che mi è incomprensibile, la reazione delle masse fu spettacolare.

Migliaia di persone affollarono la pagina di FecciaLibro di Red Ronnie: e la imbrattarono a guisa di cesso di ginnasio. Le scritte avevano un soggetto solo: Pisapia: se ne enumeravano le colpe: i difetti che acquisivano dimensioni gigantesche e drammatiche. Era uno spettacolo meraviglioso: migliaia di post, a pochi secondi l’uno dall’altro, al punto che era impossibile seguirne l’accumulo. E la caratteristica più grandiosa era proprio l’accumulo, inesauribile. Centinaia di persone che scrivevano insieme un’opera collettiva, una satira ironica assolutamente gratuita ed esasperata che, in quanto a qualità, superava di gran lunga quella del più stipendiato dei comici di professione.

Prima reazione da parte del fronte offeso: la figlia del Red mise su youtube un videomessaggio in cui difendeva il babbo, sfoderando abilità oratorie pari a quelle della mia ciabatta destra: fu prontamente vilipesa. Poi, dopo qualche giorno, scese in lizza il paparino: con esilaranti videomessaggi pure lui, alla Bin Laden (vanno di moda ancor di più, dopo che l’hanno accoppato, si vede): in tali video dava prova di leggere i commenti sulla sua bacheca: il che fu un incentivo senza pari per infiammare gli animi dei pisapisti.
Una simile opera collettiva non poteva che essere effimera. Pisapia vinse le elezioni, Red Ronnie aumentò il controllo sulla sua pagina di Feccialibro: i suoi “fan”, che erano arrivati a essere ventimila, iniziarono a diminuire in numero e virulenza. D’altronde, non ce n’era più bisogno. Probabilmente ancora oggi qualcuno sta lì a scrivere, ma Pisapia ormai è passato di moda.

Orbene, nei giorni in cui oramai la vicenda volgeva al termine, mi decisi a tentare di salvare qualche lacerto dell’opera grandiosa svolta dai pisapiani: copiai dalla pagina di Red Ronnie un po’ di commenti, pescando nel mucchio. E in questa sede intendo riproporveli. Seppure inevitabilmente in questo modo, a freddo e separati dal loro contesto natio, questi frammenti non potranno avere il valore che avevano in origine, credo che saranno ancora in grado di strappare un sorriso o una risata. Inutile specificare che non ho potuto operare alcun tipo di selezione: la parte maggiore e migliore della meravigliosa epopea satirica-satiresca dei pisapisti è inevitabilmente rimasta sommersa (salvo provvido intervento di sconosciuti che siano stati abbastanza pisapiani da avere la mia stessa idea). Buona lettura.

*Sucate: Batman-Stanlio, per tentare di ripescare qualche voto al ballottaggio, fece ricorso a tutti i mezzi a disposizione. Pagò qualche sfigato per intasare il social network Twitter, rispondendo uno per uno a tutti gli utenti. Qualche simpaticone, che si firmava con un improbabile coagulo di consonanti, scrisse una notte lamentando il fatto che la vittoria di Giuliano avrebbe portato alla costruzione di una moschea: situata nella contrada lombarda di SUCATE, in via Giandomenico PUPPA. Lo sfigato portavoce-gestore della pagina di Twitter, che era evidentemente anche un emerito idiota, non si accorse della finissima burla: e rispose accoratamente che giammai l’infedele avrebbe messo piede nell’ascosa Sucate. Da questo amabile busillis, prese per il culo a raffica concernenti l’incompetenza dello staff del sindaco uscente.

Versetti pisapiani, canto primo

Pisapia vuole legalizzare i matrimoni tra preti e cavalli. [realistica, in fondo]

Pisapia due bistecche alla volta si fotte! [non-sense totale]

Pisapia boicotta i referendum. [si registra l’inversione politica del nostro P: icona della malignità della sinistra, è così sinistro che giunge a sinistrare gli stessi effetti sperati dai suoi adepti]

Maradona ha segnato il goal con la mano, Pisapia fa goal senza mani e senza piedi!!!

È Pisapia che ha portato a Milano Greško...

Se vince Pisapia l'Armata Rossa a Corso Sempione.

Pisapia è Don Camillo travestito da Peppone.

Pisapia is on the table.

Pisapia di notte si chiama Patrizia.

Pisapia ha rubato il frullatore nuovo a Scajola. [riferimento a fatto di cronaca: http://infosannio.wordpress.com/2011/05/25/e-scajola-compro-un-frullatore-a-sua-insaputa/ ]

Piapia è il parrucchiere della signora in giallo.

Pisapia fa la scarpetta nella tazzina del caffè.

Pisapia se ti offre un fiore è perché lo ha rubato ad un cimitero.

Pisapia ha rotto le uova nel paniere (della Moratti). [Capitan Ovvio]

Pisapia è un ibrido alieno-alieno.

Pisapia blocca le porte dell' ascensore dell'ospedale con la cingomma.

Pisapia fa le vaschette di prosciutto in modo che per prendere una fetta devi sventrare tutta la confezione.

Gli scienziati stanno prendendo una svista colossale : invece di cercare forme di vita aliene nell'universo dovrebbero provare a guardare nelle mutande di Pisapia.

Pisapia ha rubato i brevetti della Macchina del fango a Sallusti.

Pisapia tifa Napoli!

mercoledì 1 giugno 2011

La città è rossa

La città è rossa
Tranquillamente rossa. All’atto pratico
efficiente, fornita di servizi, amministrata
da funzionari brillanti, ben vestiti.
La città è tranquilla
Tranquillamente rossa, non conosce
I disordini della fame, delle notti alla Caritas, dell’incendio doloso, della statua del comune decapitata dai lazzari e della sala del Consiglio saccheggiata e distrutta, dei cassonetti rovesciati, delle manganellate sui toraci nudi, delle sassate, del dolore.
Tranquillamente rossa la città non anticipa il disastro, anzi
vive tranquilla nel suo rosso di tuorlo appiccicoso di tramonto su una strada
impastata di polvere.
Aspetta, muta. Non si deve ancora prendere
la briga di mentire; rosseggia nella sua tranquilla sobrietà
immobile.

giovedì 19 maggio 2011

Senza significato. Due (Maggio 2011)

Tram, sedili di legno. I passeggeri:
uno stanco
una ragazza che dice idiozie al telefono
una signora che mangia
pane e frittata
un tizio che legge, in piedi, un romanzo di Follett.
Sale un vecchio con un violino
Inizia a suonare
Un valzer stonato
(di legno, come i sedili)
Che diventa, non so come, un blues
E torna infine valzer.
Quello stanco lo respira.
La ragazza del telefono è seccata, molto, e dice porco giuda
Perché non può più dire le idiozie al telefono.
La signora è dedita al suo pane e frittata.
Il vecchio (è persino vestito bene) fa il giro del tram col suo violino
Prima davanti, poi dietro
Ringrazia tutti
In uno strano italiano.
Quello stanco dà settanta centesimi
La ragazza si rivolge al telefono
La signora azzanna la frittata
Il tizio guarda Ken Follett.

Quello stanco si alza per scendere, poi.
Si alza anche la ragazza idiota, non è più al telefono.
È bassa. Pure il tizio di Ken Follett è basso.
Biondo.
Un gilet
Lo contiene.
Glie lo vorrebbe quasi dire, quello stanco, dirgli Amico, quel libro
Quel libro è una merda. È noioso.
Ma rinuncia.

domenica 15 maggio 2011

martedì 10 maggio 2011

Lectio Magistralis, 10 maggio

Noia, montagne di noia
Si aggrappano ai banchi.
Scampoli minuscoli di noia
Come di polvere, balle di fieno
Fatte di noia
Lembi di noia lanosa al soffitto, ragnatele
Cumuli, mucchi di noia attorcigliata sul pavimento
Ci inciampi, non respiri.
Quintali, barili, damigiane di noia
Gocciolante
A fiumi, tonnellate, bastimenti carichi di noia.

Noia che strascica i piedi
Dalla voce minuscola, gli occhiali opachi
Nel cui riflesso non cogli lo sguardo
Noia che mi distruggi i giorni
Vattene.

lunedì 9 maggio 2011

Notizie dal fronte III

Gridavo, gridavano tutti in quella piazza, ma tutti sentirono quando gridò il poliziotto
Colpito in testa da una pietra
La cosa si fece seria
Caricarono.
Ma la folla era rabbiosa, refrattaria
E in preda all’ira
Non sentiva paura.
Si andò avanti quasi fino a sera
Via per via
Sotto gli occhi accesi
Dei rari passanti. Volti noti, coperti di sciarpe
O di sangue, apparivano a volte, nel buio.
Il corteo si ricompose, alla fine, in una strada tranquilla, e riprese il percorso. Ma questa volta, appena arrivati nella piazza del Palazzo
Per prima cosa sentimmo gli spari.


Marzo '11

venerdì 6 maggio 2011

Notizie dal fronte II

Alonso Chisciano entra nella libreria sbattendo al porta, sbotta –Pensavo di trovarvi chiusi- e si precipita tra gli scaffali senza levarsi il cappello bagnato di pioggia. Riemerge con in mano una gigantesca Bibbia, un’edizione critica divisa in volumi. Il libraio sorride sarcastico.
-Hai deciso di convertirti?
-Ho deciso di andarmene fuori città finché non finisce questo puttanaio- osserva per qualche secondo i soldati che ammassano sacchi di sabbia sotto i portici dall’altra parte della strada -e mi serve roba da leggere. Filologicamente accurata,se possibile.
Guardano la pioggia in silenzio. Il libraio è calvo e barbuto, magro, trasandato. Ha occhiali spessi.
-Hai avuto fortuna, stavo per mollare tutto pure io: se fossi passato un paio d’ore più tardi avresti trovato la saracinesca abbassata. Che altro ti porti da leggere?
-Il Decameron. E basta.
Il silenzio irreale della città cade in frantumi sotto le ruote di un pesante camion militare, che passa alla massima velocità -È ora che vada- dice Alonso, e rientra nella pioggia.

martedì 3 maggio 2011

Luna, l'uomo che voleva andare sulla (aprile '11)

Ho letto una volta da qualche parte che se tipo pieghi un foglio tipo sessantaquattro volte otterrai una roba alta tipo fino alla luna.
Ho visto un tizio che ci stava provando.
Avrà avuto due o tre anni in più di me, era seduto in tram, straniero in quartiere di stranieri.
In mano aveva uno di quegli sconti del McDonald, quei fogli di carta patinata.
Lo piegava in due e lo strappava, poi di nuovo, e via così.
A un certo punto il foglio era diventato un bello spessore, una mappazza mica male da piegare e strappare. Si aiutava coi denti.
Pezzetti sempre più piccoli, a un certo punto ha iniziato a ficcarseli in tasca.
Andava avanti, indefesso.
Mai più visto, spero che ce l’abbia fatta, cazzo.

domenica 1 maggio 2011

Senza significato (Aprile 2011)

Camminavo verso il letto, nel buio. Inciampai nel rumore vuoto di un sacchetto, ne uscirono diciotto
Insignificanti
Pezzi di esistenza, proiettati su un interno di tram:
l’insegna di un negozio
di protesi ortopediche;
ragazzi che ridono;
un sogno appannato di pioggia, lontano;
un vecchio barbuto, che respira a fatica;
un uomo seduto in fondo che legge, e mi ricorda qualcuno;
un uomo che traffica con un barattolo di latta;
di là dal finestrino passa un luogo nel quale un paio di anni orsono assistetti a violenti scontri tra forze dell’ordine e manifestanti armati di bastoni, sassi, estintori;
e il ricordo del volto di una donna
vestita d’azzurro
che amavo;
il vecchio barbuto è sommerso dalla gente, riemerge, gli indico un posto, si siede senza parlare, respira ancora a fatica;
l’uomo che legge si aggiusta gli occhiali, noto che manca del tutto la stanghetta destra;
l’uomo con barattolo di latta fa cadere il coperchio tra le scarpe dei passeggeri, il rumore riecheggia ansiogeno, l’uomo si china goffo e raccatta il coperchio, si guarda intorno astioso, senza motivo; lo fa sparire nel paltò;
a un certo punto mi sembra quasi di scorgere
all’angolo
le facce
di due amici
da tempo abbandonati,
immersi nel calore di una estate furiosa
passata da troppo tempo;
e la puzza, la puzza, la puzza infinita
di tutti i passeggeri del mondo;
e a un certo punto il vecchio con la barba si alza, prende per mano il suo respiro affannoso, scompare;
mentre ci penso mi distraggo, e perdo la fermata, scendo a quella dopo;
mi accorgo che il vecchio era ancora sul tram, scende con me, se ne va per i fatti suoi;
lo guardo camminare, va nella mia stesa direzione, cono poco sforzo lo raggiungo: magari è un genio, esaudirà un mio desiderio;
non accade.

giovedì 28 aprile 2011

Neve, nuvole, crochi (26-27/3/11)

Immagina, pensa una valle
Piena di nuvole e neve, come un bicchiere,
una valle capace di ubriacarti, una valle
Di neve e di nuvole.
E i suoi prati in discesa,e i suoi boschi
ed in fondo del fumo, qualcuno
Sta bruciando dei rami,e l’odore ricopre
Le nuvole e i crochi.
Una valle capace
di guardarti dormire,
sul suo letto
Di neve e di crochi.

venerdì 15 aprile 2011

I Discorsi dell’arte poetica di Torquato Tasso hanno una struttura rigidamente tripartita; ciascuno dei discorsi che compongono l’opera è dedicato alla trattazione di uno dei tre snodi fondamentali della composizione del poema eroico: la materia, la forma, lo stile.
Nel primo discorso, dopo aver specificato una differenza sostanziale tra l’oratore/storico, al quale la materia è offerta dalla necessità, e il poeta, che deve invece scegliere il tema delle sue opere, Tasso descrive i parametri che devono governare tale scelta. La fonte del poeta deve essere la storia, la quale grazie alla sua autorità permetterà al poeta di “guadagnarsi [...] opinion di verità” aiutando il pubblico a essere coinvolto dalla finzione poetica. Per riuscire a coniugare il verisimile, carattere proprio di ogni imitazione poetica, e il meraviglioso, componente essenziale del poema eroico, il poeta dovrà scegliere storie di matrice cristiana: in tal modo potrà attribuire le azioni straordinarie e sovrannaturali al Dio cristiano o ai suoi oppositori diabolici, creduti veri dal pubblico, e non alle false divinità dei pagani.
Inoltre il poeta dovrà avere cura di scegliere una materia che gli permetta un margine di invenzione poetica: quindi nessun soggetto tanto sacro da essere inalterabile, o tanto vicino all’attualità da non poter essere modificato senza contraddire l’esperienza dei lettori. D’altro canto l’argomento non dovrà nemmeno provenire da un periodo storico così lontano da comportare la messa in scena di aspetti culturali inconsueti o sconosciuti ai lettori, e perciò sgradevoli.
In questa prima parte del discorso sono evidenti alcuni concetti mutuati da Aristotele: in primis l’aspetto mimetico della poesia e l’importanza del verisimile: “La poesia non è in sua natura altro che imitazione [...] e l’imitazione non può esser discompagnata dal verisimile” . Una precisazione fondamentale,.però, viene introdotta solo nella seconda parte: Tasso sostiene infatti, a differenza di Aristotele, che epica e tragedia non trattino lo stesso contenuto. La prima argomentazione è questa: da uguali cause non possono derivare risultati differenti; e in effetti il poema eroico preso in considerazione da Tasso non provoca nulla di simile alla catarsi tragica aristotelica, basata sulla pietà e la paura che si originano dai colpi di scena, e sull’immedesimazione emotiva tra spettatore e personaggio tragico. Gli eroi epici non sono vicini al lettore, in quanto sono sempre personaggi esemplari, totalmente caratterizzati dalla qualità che li distingue; e le vicende che li hanno per protagonisti traggono il loro effetto proprio dalle eccelse virtù che vi sono messe in atto: coraggio, cortesia, generosità, pietà, religione. Per Tasso Aristotele tralasciò questa distinzione perché gli erano bastate le differenze di modo (diegetico e drammatico)e di mezzi utilizzati per stabilire una differenza di specie tra epica e tragedia.
Conclude il discorso una riflessione sulla quantità della materia che il poeta deve scegliere per la propria opera: quantità che deve essere tale da poter ricevere elaborazione poetica senza comportare la creazione di un poema di eccessiva grandezza; l’esempio proposto a riguardo è, come in Aristotele, Omero, il quale costruì grandi poemi intorno a trame piuttosto brevi.

Il secondo dei Discorsi inizia con una esposizione del concetto di verisimile affine a quella del nono capitolo della Poetica di Aristotele. Compito del poeta è narrare le cose “in quella guisa che dovrebbono essere state” , e non come sono effettivamente avvenute, e questa è la differenza sostanziale tra storico e poeta.
Segue una trattazione sull’argomento dell’interezza della ‘favola’ (termine che nell’uso di Tasso corrisponde all’aristotelico μύθος). Una ‘favola’, per essere intera, dovrà avere un principio, un mezzo, una conclusione, definiti seguendo pedestremente il settimo capitolo della Poetica: “Principio è quello che necessariamente non è doppo altra cosa, e l'altre cose son doppo lui. Il fine è quello ch'è doppo l'altre cose, né altra cosa ha doppo sé. Il mezzo è posto fra l'uno e l'altro, ed egli è doppo alcune cose, ed alcune n'ha doppo sé” . A donare interezza alla “favola”, poi, è il fatto che essa includa le cause e i fini di ogni azione narrata.
La Poetica è ripresa anche nell’affrontare la questione delle dimensioni dell’opera, solo che la metafora dell’animale, che Aristotele espone nel settimo capitolo della sua opera, è sostituita da un confronto tra l’opera e una nave, che dimostra come le forme artificiali (come un poema, o una imbarcazione) devono avere una grandezza appropriata per poter essere di qualche utilità: “né potrà la forma della nave introdursi nel grano di miglio, né meno nella grandezza del monte Olimpo” , e lo stesso vale per la poesia.
Il resto del discorso consiste in una lunga trattazione sull’unità dell’opera. Tasso nel definirla segue Aristotele: l’unità è un carattere fondamentale del racconto, necessario per la sua perfezione, e un’azione veramente unitaria si distingue perché conduce a un unico fine. Si passa poi a confutare la tesi proposta da alcuni suoi contemporanei, che sostengono che l’unità dell’opera non sia necessaria al ‘romanzo’ (“così chiamano il Furioso e gli altri simili” , quindi si parla del poema cavalleresco); le argomentazioni sono quattro: tali romanzi rappresentano un genere estraneo all’epica, e sconosciuto ad Aristotele; le condizioni naturali della lingua volgare sfavoriscono l’unità dell’azione, propria del greco e del latino; i romanzi sono più letti (più ‘usati’), e questo costituisce metro di giudizio per la poesia; i romanzi, composti da una moltitudine di trame e azioni differenti, offrono maggiore diletto dell’epica antica, e perciò raggiungono meglio il fine della poesia.
Contro la prima obiezione, Tasso ribadisce la ripartizione aristotelica dei generi, basata su modi, mezzi, contenuti, rifiutando una differenza specifica tra poema cavalleresco e epica classica.
Per rispondere alla seconda Tasso, pur riconoscendo le peculiarità di ogni lingua (la lingua greca adatta alle descrizioni minute e precise, la latina alla grandezza e la maestà, la toscana alla passione amorosa) afferma che di fatto l’unità dell’azione non è in conflitto con alcuna di queste specificità, e perciò è ugualmente attuabile in tutte le lingue.
Alla polemica relativa all’uso del romanzo, Tasso risponde così: alcune cose traggono valore dall’uso che se ne fa, altre, quelle fondate immediatamente sulla natura, hanno in sé delle qualità; a questa seconda categoria appartiene l’unità dell’opera, che per sua natura conferisce automaticamente perfezione.
Quanto al diletto, Tasso ammette che esso sia il fine della poesia, e che l’ Orlando Furioso fornisca effettivamente più diletto dell’ Italia liberata dai Goti (un poema di Gian Giorgio Trissino, che rispettò i precetti aristotelici ma ebbe scarsissimo successo) ai lettori moderni. Afferma però che il successo dell’opera di Ariosto non è da attribuire alla molteplicità di azioni che essa contiene, bensì alla bellezza delle invenzioni poetiche, e all’appropriatezza dei costumi descritti: due fattori trascurati da Trissino, i quali essendo di natura accidentale non hanno alcuna relazione con l’unità o la molteplicità del racconto. La varietà reca piacere, ma non era necessaria agli autori epici antichi (il cui pubblico, nell’opinione di Tasso, era meno esigente del contemporaneo per quanto riguarda quest’aspetto); è invece indispensabile per riscuotere il favore del pubblico moderno.
Tasso mostra quindi come sia possibile ottenere varietà all’interno di un poema unitario; ripropone a questo fine la tipologia aristotelica degli elementi che movimentano il racconto, esposta nell’undicesimo capitolo della Poetica: rovesciamento, riconoscimento, evento traumatico. Propone inoltre una classificazione dei racconti sulla base dell’impiego di questi tre elementi, ottenendo quattro generi che si sovrappongono parzialmente a quelli che Aristotele aveva individuato per la tragedia nel diciottesimo capitolo della sua opera: ma il passo aristotelico in questione è corrotto, e pertanto la classificazione incompleta. I generi aristotelici, ordinati dal migliore al peggiore, sono quello d’intreccio (che comprende rovesciamento o riconoscimento), di eventi, di caratteri, e un quarto genere non identificato. I generi di Tasso sono semplice, doppio (quest’ultimo dotato di agnizione e rovesciamento, mentre il primo ne è privo), affettuoso (incentrato sull’evento traumatico) e di costume.

Il terzo discorso è dedicato alla trattazione dello stile. Tasso accetta la tripartizione classica degli stili ed enumera per ciascuno di essi il difetto da evitare: lo stile sublime non dovrà essere gonfio, il medio non dovrà essere “secco” o “snervato”, l’umile non dovrà scadere nella volgarità. Situa lo stile più appropriato al poema eroico a metà strada tra lo stile medio, proprio della lirica, e lo stile della tragedia. Quest’ultimo differisce dallo stile epico perché la materia trattata nelle tragedie è più vicina alla descrizione dei sentimenti che alla magnificenza, e perché il poeta tragico parla attraverso i suoi personaggi e non in prima persona. Il lirico, invece, è tenuto a usare uno stile ornato, adatto alle sue materie, perlopiù oziose. Il poeta epico deve saper padroneggiare entrambi i registri stilistici, senza trascurare di mantenere sempre la magnificenza che gli è propria.
Tale magnificenza deriva dai concetti espressi, dalle parole o dalle composizioni di parole. Tasso compie una classificazione del lessico che riproduce quella del ventunesimo capitolo della Poetica: le parole sono “o proprie, o straniere, o translate, o d'ornamento, o finte, o allungate, o scorciate, o alterate” . Questo passo è quasi una traduzione di quello aristotelico, e per descrivere una varietà delle parole traslate –le metafore– Tasso usa lo stesso esempio di Aristotele: quello del tramonto in relazione alla vecchiaia umana.
Lo stile umile nasce dall’uso comune o proprio del linguaggio; tutte le parole estranee alla categoria delle parole proprie sono invece fonte di magnificenza, ma anche di oscurità: compito del poeta è accoppiarle ai termini comuni in modo da creare un composto “tutto chiaro, tutto sublime, niente oscuro, niente umile” . Tale concezione si trova espressa nel ventiduesimo capitolo della Poetica.
Il resto del discorso è una trattazione sul rapporto tra stile, concetti ed espressioni, che conduce alla conclusione che “la diversità de lo stile nasce da la diversità de' concetti i quali sono diversi nel lirico e ne l'epico, e diversamente spiegati” , e che “se il lirico e l'epico trattasse le medesime cose co' medesimi concetti, ne risulterebbe che lo stile de l'uno e de l'altro fosse il medesimo” ; vale a dire: più che gli oggetti rappresentati sono i concetti, “Imagini delle cose che nell’animo nostro ci formiamo variamente” , a determinare lo stile di una composizione.

I Discorsi del poema eroico, pubblicati molti anni dopo i Discorsi dell’arte poetica, ne rappresentano una versione ampliata e parzialmente riscritta.
La prima aggiunta significativa consta nel primo libro, introduttivo, che inizia con una trattazione generica sulla natura della poesia e sul suo fine (“imitazione dell’azioni umane affine di giovar dilettando” ), sui modi e i mezzi a disposizione del poeta, sulla classificazione dei generi letterari: trattazione condotta seguendo accuratamente i dettami aristotelici.
E, come Aristotele, dopo aver dato definizioni generali della poesia Tasso passa a descrivere nel particolare l’oggetto della sua opera: “il poema eroico è imitazione di azione illustre, grande e perfetta, fatta narrando con altissimo verso, affine di giovar dilettando” . Giovare dilettando sarebbe in realtà fine di ogni tipo di poesia, ma mentre commedia e tragedia “muovono meraviglia per muover riso o altro affetto” il poema eroico ha la meraviglia come fine suo proprio; perciò la sua definizione va così completata: “il poema eroico è imitazione di azione illustre, grande e perfetta, fatta narrando con altissimo verso, affine di muovere gli animi con la meraviglia e di giovare in quella guisa” .
Si elencano poi le parti qualitative del poema eroico, affini a quattro delle sei parti fondamentali della tragedia per Aristotele (con l’esclusione degli aspetti visivi e musicali): la trama (‘favola’ o μύθος), i caratteri, il linguaggio, il pensiero. Seguono le parti quantitative, anch’esse messe in parallelo a quelle della tragedia.
Conclude il libro una trattazione del verisimile e della distinzione tra poeta e storico, in difesa di Aristotele contro la critica di Lodovico Castelvetro, il quale sosteneva il primato (teorico e cronologico)della storia sulla poesia. La risposta di Tasso è imperniata sull’argomento aristotelico dell’universalità della poesia, contrapposta alla particolarità della storia.

Il Libro secondo è affine per struttura e contenuti al primo dei Discorsi dell’arte poetica, e risulta ampliato negli esempi e nelle citazioni. Particolare rilievo riceve la polemica sulla verità dell’arte, e sulla possibilità di mentire che pare sia accordata al poeta, accostato pertanto ai sofisti. Facendo sfoggio di una cultura veramente enciclopedica, con riferimenti ad autori classici (Aristotele in primis, poi Esiodo e molti altri) e cristiani (Atanasio), Tasso mostra invece come il poeta debba essere accostato piuttosto al filosofo, in quanto la sua arte non deve creare simulacri privi di realtà, ma imitazioni verisimili e universali.

Similmente, il terzo libro ricalca il secondo dei Discorsi, con un significativo ampliamento della sezione riguardante le difficoltà legate all’introdurre varietà in una trama unitaria. Innanzitutto, il poeta deve essere in grado di usare tutti gli stili, e di movimentare una trama anche molto breve con episodi; maestro in questo è Omero, e Tasso riporta qui la brevissima sintesi della trama dell’Odissea proposta da Aristotele nel diciassettesimo capitolo della Poetica.
Altra fonte di varietà sono i caratteri, e ancora Omero è elogiato per aver saputo mettere in scena personaggi da commedia senza scrivere volgarità, in un poema, quello epico, nel quale hanno ruolo fondamentale eroi degli delle lodi più elevate. Si riportano poi le condizioni essenziali nei caratteri, già poste da Aristotele: che siano buoni, appropriati, somiglianti, coerenti.
I caratteri si manifestano attraverso le parole, le azioni, le sentenze, e tutti questi fattori devono concorrere a costituire il ‘decoro’ dei personaggi: gli esempi sono Omero, attento al decoro particolare, in quanto creò molti personaggi, ciascuno caratterizzato da una sua particolare virtù, e Virgilio, che si applicò a descrivere un decoro generale, facendo risplendere di tutte le qualità il protagonista dell’Eneide.
Segue un elenco di parametri (età, ruolo sociale, nazionalità, ricchezza, etc.) dei quali il poeta deve tenere conto nel costruire il ‘decoro’ dei suoi personaggi, e una serie di circostanze (temporali, atmosferiche, spaziali) e di oggetti, il tutto corredato da esempi tratti perlopiù dall’Eneide per illustrare i modi in cui l’artificio poetico possa essere applicato alle descrizioni.

Gli ultimi tre libri dei Discorsi del poema eroico hanno come argomento lo stile.
Primo punto toccato è l’invocazione divina che apre i poemi eroici: contrariamente al parere di Castelvetro, secondo il quale essa è inappropriata in quanto “argomento di superbia e di presunzione” , l’invocazione deve rappresentare una supplica rivolta all’intelligenza personificata –adatta, quindi, anche al poeta cristiano. L’invocazione è strettamente correlata alla proposizione dell’argomento del poema, e deve essere atta a suscitare l’attenzione del lettore, ma senza fare promesse che non saranno mantenute.
Tasso affronta poi un elenco degli elementi che compongono il linguaggio affine a quella del ventesimo capitolo della Poetica: lettere, sillabe, congiunzioni, articoli, nomi, verbi. É riprodotta poi la classificazione aristotelica del lessico, già vista nel terzo dei Discorsi dell’arte Poetica, così come il concetto di linguaggio chiaro ma non sciatto, composto da una combinazione di termini propri e oscuri.
Segue una trattazione diffusa sulla metafora e sulle altre figure retoriche: secondo Tasso, Aristotele trattò solo la prima in quanto incluse tutte le altre sotto di essa.
Concludono il quarto libro una definizione della magnificenza dello stile e una collocazione dello stile epico tra il tragico e il lirico affini a quelle viste nel terzo dei Discorsi dell’arte poetica.

Il quinto libro si apre con una trattazione sul linguaggio, presentato come fattore che distingue l’uomo dagli animali e elemento indispensabile della poesia. Essa, benché arte del linguaggio per eccellenza, è subordinata alla logica: il linguaggio si situa infatti sotto il dominio del poeta e dello storico, non dell’attore, sebbene spesso sia quest’ultimo a esercitarlo.
La parte centrale di questo libro è costituita da un elenco degli effetti fonici e delle figure retoriche che accrescono la magnificenza del linguaggio poetico, con moltissimi esempi (tratti dalle opere di Petrarca, Virgilio e altri poeti). L’allegoria riceve uno spazio privilegiato, e se ne traccia una breve storia: fu conosciuta da Platone e Aristotele, ma con nomi diversi, venne impiegata come strumento per difendere Omero nel periodo ellenistico, e infine fu riconosciuta da Dante come uno dei quattro livelli di significato del testo poetico.
Chiude il libro una formulazione (“se l’epico e ‘l lirico trattasse le medesime cose co’ medesimi concetti, adoprerebbe per poco il medesimo stile. Possiamo dunque concluder che le parole seguono i concetti, e ‘l verso parimente” ) già vista al termine dei Discorsi dell’arte poetica.

Il sesto e ultimo libro dei Discorsi del poema eroico è dedicato all’idea del bello.
Inizia con una trattazione del rapporto tra il riso e il diletto che nasce dalla poesia: molti infatti hanno confuso questi due concetti, e hanno cercato di introdurre il riso in tutte le loro composizioni. Tragedia e poema eroico sono invece, per loro natura, avversi ad esso, in quanto il riso trae origine dalle cose brutte, e dalle brutte parole atte a rappresentarle, mentre il linguaggio elevato del poeta tragico o epico è fatto di parole belle. Il meraviglioso si trova in entrambi i modi di poetare, ma le cose brutte e ridicole cessano di suscitare meraviglia una volta conosciute, invece la meraviglia prodotta dalle cose belle è durevole. Con queste argomentazioni si sostiene la differenza tra ‘grazioso’ e ridicolo.
Si passa poi a mostrare da quali fonti nasca il ‘grazioso’,che si può trovare anche nella poesia epica, congiunto con il suo opposto, il ‘grave’; segue un catalogo delle figure retoriche e di suono che caratterizzano questi due registri espressivi, con esempi tratti dalle opere di Della Casa, Bernardo Tasso e Petrarca.
Viene poi brevemente descritto l’ultimo dei tre stili, quello umile, il più dotato di chiarezza e semplicità. La sua caratteristica più importante è “quella virtù che ci fa quasi veder le cose che si narrano” (alla quale si era già accennato nel terzo dei Discorsi dell’arte poetica, esemplificata con alcuni versi dell’Inferno) che si ottiene con la descrizione minuziosa dei particolari, e con l’uso di onomatopee.
Quanto alla scelta del lessico, si presentano nuovamente gli esempi opposti di Omero e Virgilio. Il primo agì con la massima libertà, usando arcaismi, barbarismi, onomatopee, neologismi: insomma tutti termini che , essendo estranei alla categoria delle parole proprie, accrescono la magnificenza del linguaggio, diminuendo la chiarezza. Virgilio invece scelse con prudenza e parsimonia i termini desueti, ma eguagliò il suo predecessore nella virtù, poco sopra descritta, di esprimere la realtà con il linguaggio. Dante è accostato ai due, simile a Omero nella libertà lessicale, ma affine a Virgilio per la brevità e per l’espressività.
Segue la descrizione dei vizi accostati ai vari stili: il ‘freddo’ o ‘gonfio’ per il sublime, il ‘male affettato’ al medio, il ‘volgare’ all’umile: difetti che, come il pregio stilistico, derivano dal rapporto tra concetti ed espressioni.
Si trattano poi i problemi relativi alla scelta del verso e alla musica. Per i poeti di lingua toscana, lo schema metrico più appropriato per l’epica è la “stanza d’otto versi d’undici sillabe” , che garantisce l’ampiezza, l’uniformità e la gravità necessarie ai concetti che il poema eroico esprime. Anche la musica più adatta ad accompagnare il poema eroico deve essere “grave e stabile” , caratteristiche che Aristotele individuava nel modo dorico.
Conclude l’opera il confronto tra epica e tragedia, che vede Platone e Aristotele contrapposti: per il primo il primato spetta all’epica, in quanto essa non ha bisogno degli attori, i quali spesso coi loro difetti rovinano l’efficacia del testo poetico; la risposta di Aristotele poggia su numerosi argomenti: innanzitutto la tragedia può anche fare a meno degli attori, potendo essere letta; inoltre fa uso di mezzi preclusi all’epica, e raggiunge più rapidamente il suo scopo: è più semplice e diletta di più. In questo caso, però, Tasso soccorre Platone: afferma infatti che la critica mossa da questo filosofo non era rivolta all’arte della recitazione, ma a un difetto poetico: nella tragedia non è il poeta a parlare in prima persona, e perciò è necessario che qualcuno lo rappresenti; musica, aspetto visivo e recitazione sono citati da Aristotele tra le parti qualitative della tragedia, escluderli rappresenterebbe una mutilazione; il testo tragico infatti è scritto per essere recitato, e nella lettura perde inevitabilmente parte del proprio valore.
Inoltre è vero che la tragedia impiega vari versi, ma essi sono da considerare minori rispetto a quello epico, il più adatto a grandezza e alla magnificenza; nel dire poi che la μίμησις tragica è più efficace si compie una imprecisione: tale efficacia deriva infatti dall’attività degli attori, ed è estranea all’arte poetica in senso stretto, nel quale è l’epica a prevalere, poiché la sua ‘evidenza’ o efficacia deriva dalla narrazione accurata, praticata dal poeta in prima persona. Infine, benché la tragedia impieghi meno tempo a compiersi, lo scopo del diletto è raggiunto maggiormente dall’epica, proprio in virtù delle sue maggiori dimensioni; e anche il fine di educare i lettori è meglio perseguito dall’epica, che mostra direttamente gli esempi di virtù, mentre la tragedia di solito mette in scena la punizione riservata a chi sbaglia. In conclusione : “Concedamisi dunque ch’in questa e in alcune altre poche opinioni lasci Aristotele, per non l’abbandonare in cosa di maggiore importanza, cioè nel desiderio di ritrovar la verità” .

Il successo dell’Orlando Furioso, poema cavalleresco che per molti aspetti sembrava inconciliabile con la tradizione classica, portò molti autori a mettere in dubbio la validità dei precetti che fino ad allora avevano guidato la scrittura letteraria. Alcuni intellettuali, come Ludovico Castelvetro, iniziarono ad avere un approccio critico nei confronti dei testi portanti di tale tradizione, come la Poetica di Aristotele, la cui auctoritas, rimasta intoccabile per molti secoli, iniziava apparentemente a dare segni di erosione.
In queste polemiche si inserì Tasso coi suoi Discorsi. E non lo fece da cieco difensore di una tradizione assodata, come pure alcuni passi della sua opera potrebbero far pensare: si legge nel terzo libro dei Discorsi del poema eroico “lasciando dunque i seguaci di Castelvetro nella loro opinione, or noi seguiamo quella di Polibio, di Dionisio, di San Basilio, d’Averroè, di Plutarco e d’Aristotele” ; questo proposito è espresso, a mio avviso, con un certo sarcasmo: l’autore moderno che osa criticare gli antichi è contrapposto a una moltitudine schiacciante di autorità, presentate per accumulo, che sembrano convalidarsi a vicenda, sottraendosi a qualsiasi possibilità di messa in discussione o approccio critico.
In effetti anche in altri passi Tasso si rivolge in questi termini ai suoi contemporanei, ma bisogna dire che è ben lungi, in realtà, dall’avere un approccio conservatore ai classici; Aristotele, forse la più consolidata delle auctoritas, rappresenta sì in molti casi il punto di partenza teorico e la base filosofica delle teorie di Tasso, ma questi non esita ad apportare correzioni quando lo ritiene necessario: la teoria della verisimiglianza viene ampliata e integrata in base alla visione cristiana della realtà, viene introdotta una differenza fondamentale tra l’oggetto della narrazione epica e quello della tragedia; ma soprattutto, si capovolge il rapporto gerarchico instituito da Aristotele tra epica e tragedia: Tasso è cosciente del fatto che nella sua epoca tale gerarchia non è più valida (tant’è che il vero oggetto dei suoi discorsi è il poema eroico) e quindi non esita a capovolgerla.
Quello di Tasso è, in definitiva, un approccio all’insegna della consapevolezza critica: il suo obiettivo è ricondurre a dei principi teorici consolidati una produzione poetica che sembra andare alla deriva, in procinto di attraversare un radicale cambiamento di paradigma; in realtà tale cambiamento non è ancora imminente, Tasso se ne rende conto e riesce, grazie al suo acume e alle sue immense conoscenze letterarie, a mostrare come le norme dettate dai classici non abbiano ancora perso la loro validità.

lunedì 4 aprile 2011

Quella notte che il tram mi parlò

Non dovresti essere a letto
A quest’ora?
Domandò il tram parlante, e mi squadrò a lungo
Col suo unico
Rotondo
Acquoso
Occhio giallo.
Che ne so? Che te ne frega?
Maleducatamente risposi. Sudavo freddo.

Mi aggrappai alla luce di un lampione
Mi asciugai della notte
Che mi bagnava
E me ne tornai a casa.

Fu quella volta che smisi di fare le ore piccole, quella notte che il tram mi parlò.

mercoledì 23 marzo 2011

Notizie dal fronte

Portano un cadavere irrigidito, avvolto in una tuta militare
Scura
Troppo grande per lui. Lo sollevano
Come un trofeo
Poi lo sbattono per terra.
Un mercenario assoldato dai nemici, uomo senza casa, famiglia, amici
Senza radici in questa terra, apparso
da qualche luogo lontano
Parlava una lingua ignota, aveva armi costose
E l’hanno ucciso
Quasi a mani nude.
Erano una folla.

Il suo volto adesso è senza voce
Gli occhi chiusi, i denti in mostra. È stato un uomo crudele
Ma non avrei mai voluto vederlo
Così.

martedì 22 marzo 2011

Incontri ravvicinati (dicebre 2009)

Lo Stangone Iperproteico
Mi supera mentre cammino davanti alle bancarelle; le sue titaniche falcate divorano il selciato, una delle zampe colpisce la valigia di un vecchietto innocentemente parcheggiato al bordo della strada, ribaltandola: lo Stangone si gira, guarda verso il basso, il suo volto mormora qualche cosa di incomprensibile, e riprende la galoppata verso Piazza Castello. Il vecchio, più morto che vivo, mi guarda; poi raddrizza la valigia e passa avanti. È sopravvissuto allo Stangone Iperproteico.

Lo Stangone si può osservare in pieno centro, per i portici e le vie pedonali, in tutta la sua magnificenza; chiaramente è visibile anche in altre parti della città, nelle quali però si trova, al solito, incastrato e compresso nell’abitacolo di qualche autovettura. Quando è appiedato, invece, si manifesta nella pienezza del suo essere. È alto circa come lo yeti, o due volte tanto, e nei mesi freddi fa mostra di una fantastica copertura o livrea composta da felpe con cappuccio, jeans, scarpone, giacca da sci (nel caso sia uno Stangone di sinistra) oppure cappottone elegante, sciarpa e clarks (qualora sia di destra o neutro). L’ideologia dello Stangone corrisponde ai suoi vestiti, o meglio la più totale assenza di idee si realizza nell’immensa ampiezza del suo guardaroba: si dà il caso di esemplari che al mattino partecipino ai cortei e invadano le strade della città, gridando slogan, e al pomeriggio cambino abiti, si bevano una bella coca cola, poi tutti al Mac e a seguire in discoteca.
Solitamente lo Stangone fa udire una voce baritonale e dal volume spropositato, che riesce a sovrastare il brusio della più concitata lezione universitaria. Il cognome Iperproteico deriva dalla sua dieta da primo mondo, che gli ha permesso di raggiungere le sue ragguardevoli dimensioni, divenendo in tal modo Stangone.
Molto, molto raramente si è sentito parlare di Stangonesse; la ragione mi è oscura, forse legata ai misteriosi capricci degli ormoni, o a una matrice estetico-antropologica, per cui la nostra società sarebbe messa a disagio da donne alte due metri e trenta.
Sinonimo di Stangone è Fettazzone (ovvio riferimento ai non minuscoli appoggi sui quali si sostiene la spropositata mole degli esemplari) ma quest’ultimo termine perde in parte la sua connotazione “urbana” e benestante: di Fettazzoni se ne vedono anche fuori dalla città, d’altronde sin dal medioevo sono frequenti, nei detti, villani dai piedi grandi e dal cervello fino.

N.B.: Non credeteci, ma lo Stangone esiste. Potreste avvistarlo se, un giorno o l’altro, vi fermaste un attimo e guardaste con minuzia il viavai perenne che vi circonda.

domenica 27 febbraio 2011

Quanto ero libero?

Quanto cazzo ero libero?
Quanto cazzo ero libero
Di non rispondere
Non dormire
E non occuparmene?
Di passare le mattine
Vagabondo
Lungo il fiume?
Di guardarvi di sbieco, perché tanto
Non avreste capito?
Ora forse è diverso, ora forse va meglio
Ma una nostalgia mi rimane
Di quei tempi assuefatti e drogati.

24-2-11

mercoledì 23 febbraio 2011

Neve (inverno 2009)

Cade la neve
Cade bagnata
Implora
Alla terra già fradicia
Un restare, un fermarsi umido e gelido
Cinquanta e più pagine sono passate
Ma né pioggia né neve hanno ancora ottenuto la grazia
E cadendo abbracciate
Si contendono la strada.
E rimane nell’aria
Un’intenzione di inverno appena iniziato
Un’attesa di primavera a venire
Di mesi
Che caldi corrano in fretta
E stiano tesi
Come i tuoi sogni.





L’azzurro ed il bianco colorano il mondo quando
Dopo giorni e serate di neve, e una notte ghiacciata
Torna ingenuo e lindo il sole, per vedere
Se esista ancora un cuore
in cui versare il suo calore.

martedì 22 febbraio 2011

Ritratto VII: Adele

Il sapone dei piatti
Non è mai stato gentile con lei, né la giacca del proprietario
Il giorno dello sfratto; eppure Adele
Se si addormenta in mezzo agli altri passeggeri
Quando torna dal ristorante, la notte
Sembra ancora ragazza.

domenica 20 febbraio 2011

Cavatappi

Apparve nell’alba, aveva in mano un cavatappi enorme, metallico.
-Dove cazzo l’hai preso?
-È l’unico che ho trovato uscendo.
Aprì la bottiglia in via Sant’Ottavio, bevemmo in cammino, tra i passanti assonnati. Qualcuno ci guardava stupito, altri offesi: genitori coi bambini, li portavano a scuola. Arrivammo un po’ sbronzi all’autogestione,
là ci dividemmo, rossi in volto, immersi in nuvole banali di rumore.
Semplicemente, ogni cosa era priva di senso: non chiedeva di averne.

martedì 15 febbraio 2011

Ritratto VI: ritratto di coppia, Palla-di-lana & Il-signor-direttore

Ogni sacrosanta mattina
Alla stessa ora
Il signor direttore ferma la sua automobile a un semaforo, presso il quale mendica una vecchia tracagnotta e coperta di lana.
A quindici metri netti dalle strisce –quindici metri
Ogni sacrosanta mattina- il signor direttore aziona
Premendo un pulsante
Il dispositivo che chiude tutte le porte della sua macchina.
Il signor direttore, nel fiore degli anni, ben nutrito e vestito e stipendiato e riscaldato (da biancheria ed affetti), dotato di casa, carriera sicura, amici irreprensibili, e un mucchio di sacrosante convinzioni progressiste (che, detto tra noi, gli facilitano la vita oltremisura)
Ha
Evidentemente
Paura
Di una vecchia palla di lana imbevuta di pioggia fredda, in piedi alle sette del mattino, sola al suo semaforo in mezzo a mandrie di automobili corazzate di metallo insensibile e gelido.
Palla di lana la quale ha la massima pretesa di ricevere qualche moneta per un pezzo di pane, per di più.
Io non me lo spiego, voi?