venerdì 30 dicembre 2011

La faccia di N (30 novembre, 30 dicembre)

La grande aula traboccante, ricolma di chiasso. N con la sua cravatta viola appare e gironzola. Un giovane servizievole, un tecnico, prova con discrezione il microfono e glie lo porge. Quella enorme cravatta viola è davvero ridicola, e N però la porta quasi sempre. Invece io sono vestito da straccione anche più del solito, non ho detto a nessuno che avevo la proclamazione di laurea, mi siedo per terra con un libretto di Céline in mano. N inizia il suo discorso populistico-simpaticone-menzognero tra gli applausi rimbombanti di parenti e studenti: e questi ultimi, agghindati e deliranti, aspettano la stretta di mano e il voto e la pubblica lettura dei titoli rombanti delle loro pregevoli tesi. Ma il discorso incalza: l’università, dice N, deve formare la classe dirigente del futuro. I parenti compunti applaudono potenti, immaginandosi in futuro raccomandati dai rampolli dementi: e se no a che serve avere pagato le tasse? E N prosegue citando sobriamente, spiritosamente, blandamente, ma con accenni di sdegno, il fatto che “tutto quanto sta andando a puttane e così sia”, e che tuttavia lui ci tiene tanto che il suo mestiere sia fatto come si deve, e anche che esso mestiere sia correttamente e correntemente (in valuta) valutato. E conclude con ottimismo incravattato e cravàttico, cravattèvole-carezzevole: d’altronde come potrebbero mai le cose andare male? Guardate che aula gigantesca piena e strapiena di bella gente! Di cappotti, di giacche, di tailleur con dentro persone! E assicura che tutti, in ogni caso, troveranno un bel mestiere. Cioè, l’ottantacinque per cento: e nessuno sia così lagnoso da poter pensare di finire proprio nel risibile quindici per cento di sfigati a vita: misera cifra in verità, per davvero. Dopodiché, N comincia al più presto a leggere i nomi, in quanto vuole andare a fare pranzo. Il grosso registro dei neolaureati non è in ordine alfabetico per relatore, né per titolo, né per tesista, né tantomeno per corso di laurea o per insegnamento: no, signore e signori, è in ordine per commissione, e N fa una cordiale tiratina d’orecchi (in contumacia) a quei birichini di docenti che si sono dimenticati (o: che non si sono degnati) di trascrivere il titolo di alcune tesi. Poi i nomi, si parte con i nomi! uno alla volta si alzano i pupilli, lodati e festeggiati dal parentado, dai colleghi, dai perfetti sconosciuti che li attorniano: e scendono fino alla cattedra per ricevere da N una stretta di mano e la tirata rituale che di volta in volta si accorcia e si trasforma in borbottio. E N, nonostante l’impazienza, non si risparmia i commenti spassosi che lo rendono protagonista nella sua università e nei nostri cuori. Io mi sto per appisolare, ho persino smesso di leggere, mi inebetisco guardando i miei colleghi sfilare uno dopo l’altro uguali, identici. Sono tutti elegantissimi, io al confronto sembro davvero un barbone, merda: avrei dovuto pensarci e vestirmi almeno decorosamente. Passano un paio di conoscenti, che non sapevo nemmeno si stessero laureando: e hanno pure voti sorprendentemente mediocri. Passa una ragazza carina che sembra una francese (giuro, e non so perché) il che per un attimo mi risolleva l’animo, poi mi accorgo di quanto siano leziosi i suoi tacchi e la sua faccia educata e mi spavento. Passa un ciellino, persino (odioso! Dio Madonna!) che sembra una magica proiezione di ciò che N avrebbe potuto essere una quarantina (una cinquantina?) di anni fa. A un tratto mi accorgo che sta chiamando quelli che sono passati con la mia stessa commissione. E a un certo punto tocca a me. Mi alzo e, le mani in tasca, mi avvicino alla cattedra. N mi squadra sospettoso ma finemente ironico: si sofferma sul mio maglione e sui pantaloni sfilacciati, mi punta contro il viola della sua cravatta: “se era estate” dice “ venivi in canottiera?”. Il pubblico ridacchia cordiale: non di me, con me! Io sorrido e non rispondo (non ho parole, per lui!), me ne frego, aspetto che inizi a parlare. “Allora, ecco il voto, ecco il titolo, su Tizio Sempronio, addirittura, l’hai fatta!”, e mi porge la mano. Tutto quanto è talmente ridicolo che mi sembra il caso di dare almeno un contributo. Quindi non gli stringo la mano già tesa e mi volto verso il pubblico, mentre inizia timido l’applauso (applaudire sempre, applaudire comunque, e non si sono nemmeno accorti che c’è qualcosa di strano, mentre N sospetta già, vecchio volpone). Mi rivolgo alla platea e faccio un inchino: un inchino sguaiato, triviale, da violinista di ristorante. Sono ancora chinato, mi guardo la punta delle scarpe, l’applauso scroscia incredulo: e non riesco proprio a immaginarmi come sia in questo momento la faccia di N.

giovedì 8 dicembre 2011

Senza titolo

La cimice, minuscolo pentagono verde, svolazzò cicciona e rimbambita tra i clarinetti. Finì quasi in mezzo ai tromboni, poi inaspettatamente virò a sinistra passando sulle teste dei sax baritoni fino a brancolare pesantemente nell’aria di fronte a un flicorno. Il musicista la vide, soffiò, strabuzzò, scantonò, sbabbiò, poi cristonò (nella mente), dimenticò di riprendere fiato e alla fine a forza di divincolarsi gli parve di aver schivato lo schifoso insetto. Non appena l’incalzare delle note gli lasciò un attimo di tregua, abbassò lo strumento per dare un’occhiata all’ora (aveva fame, e un po’ di sonno), e lo sguardo gli ricadde sui pantaloni: ai quali la grassa cimice si era aggrappata. Inorridito, scalciò, mandando la bestiola a ruzzolare fuori rotta, senza possibilità di sterzo o planata. Il fetido insetto strusciò qualche giacca e colletto e braga, rotolò all’impazzata, si schiantò sul pavimento e frenò la sua folle scivolata a pochi millimetri dalla suola gigantesca di un gigantesco sax contralto. Il flicorno ghignò. La scarpa, nera ed enorme, andava su e giù a ritmo di musica: e la cimice era sul ciglio, sul bordo di quel quattro quarti incessante di mocassino, che l’avrebbe inesorabilmente spiaccicata e ridotta a proiezione ortogonale di sé stessa sul pavimento lercio. Il flicorno ghignava e righignava, che capolavoro! Ricominciò a suonare, pensando con gioia truce al momento in cui il sax contralto avrebbe sentito il profumino dell’insetto: che stava per finire la sua esistenza in modo così poco dignitoso. Tanto più che la verdaccia, come tartaruga rovesciata, zampettava disperatamente per rialzarsi, ma senza accorgersene non faceva altro che muoversi, strisciando sul dorso, verso la suola nera della sua fetida morte. Il trionfo del flicorno era ormai quasi certo. E invece la cimice, giunta ormai tanto vicina al micidiale mocassino da poterlo toccare, si riscosse: proprio quando la suola polverosa, gigantesca, discese su di lei, sei esili zampette verdi vi si avvinghiarono con forza. La cimice salì insieme alla scarpa: si era attaccata sul lato. Il flicorno si abbacchiò: la schifosa verde cominciò a salire su, girando intorno al tallone, poi la caviglia del sax contralto, abbarbicandosi in tornanti sulla calza nera: poi sparì.

domenica 4 dicembre 2011

sabato 3 dicembre 2011

Dicembre (2009)

Primo Dicembre
Corso Giulio Cesare
Alle sette del mattino
È nebbia blu, fari gialli, tronchi neri;
Foglie d’ombra per terra, le case non esistono.
Saranno distese e montagne nere
E campi di neve illuminata dalla luna.

Tre Dicembre
Lottiamo contro il nulla, come i giocattoli
Che vedi sparsi negli orti abusivi
E nei mucchi di immondizia
Presso la tangenziale.

Sedici Dicembre
Il sole cola come cera
Sull’orizzonte delle cinque,
ha le scarpe rotte
Ma cammina in fretta.

giovedì 1 dicembre 2011

Dicembre (2008)

Dicembre è un airone
Che presso a una strada
Punta al cielo il suo becco,
e resta immobile, grigio
e nessuno lo nota.
Dicembre è una noce
spezzata con le mani
E mangiata da in piedi
Davanti al camino.
E Dicembre è foschia, neve bassa
E un ritmo swing appena accennato
E un sorso di grappa, e un riso selvaggio
Dicembre una lacrima di vento freddo,
camminando nell’immensità
della più misera periferia.
Dicembre è un mese povero, lontano da ogni primavera
Ed è un mese libero, di là da ogni pioggia e fortuna,
vaga nei campi, raccoglie la brina con mani capaci
e la sparge e decora i bordi dei fossi
e i piedi degli alberi.

Riassumendo Dicembre,
da vecchio maestro qual è
trascorre il suo tempo in tramonti fugaci
e cita vecchie, vecchie poesie
per raccontare il suo freddo anche a te.