martedì 25 ottobre 2011

Un caso esemplificativo della maniera in cui, nella moderna e còlta società occidentale, svolgesi mediamente il diportarsi della pubblica opinione

Allora mettiamola così. Il branco delle oche ha trovato un varco nel recinto e se l’è svignata alla ricerca delle poche erbe commestibili, superstiti nell’autunno. Gli uccelli, coglionissimi, stanno sparsi per il prato – ma non troppo distanti gli uni dagli altri – a ciancischiare e biascicare in mezzo alle foglie secche e alle merde ogni sorta di commestibile che sia finito loro sotto il becco. XYZ passa a controllare, sacco di grano in spalla, e se ne accorge. Cristona, va alla baracca a prendere una pertica, scavalca il recinto. Fruga con al pertica nei nidi delle oche, in cerca di uova. Svuota il sacco nelle mangiatoie, riempiendole fino all’orlo, poi lo pigia in una delle capienti tasche del giaccone vecchio. Di corsa – a mezza corsa, al galoppo – raggiunge il buco nel recinto, ci passa attraverso, rincorre le oche terrorizzate battendo le mani, e usando la pertica per dirigerle quando serve; finché non sono tutte rientrate. Le bestiacce si sparpagliano, i maschi impriapiti pàperano* i loro sguaiati versacci per il prato come vana petizione a difesa del ventre molle del branco, delle ciccione femmine. Mentre quelle ancora scappano, e i maschi caracollano inutili, tutti impauriti all’idea di averlo ancora galoppante alle spalle con quella maledetta pertica, XYZ si china ad aggiustare col fil di ferro gli strappi nella rete di plastica da cui le bastarde sono riuscite a uscire. Il branco si ricompatta, razzola dubbioso, si guarda intorno; istintivamente torna verso i nidi. La femmina più vecchia, più grassa, ha occhi azzurri lustri e lucidi, più lucidi delle altre, e vede per prima le mangiatoie riempite di fresco: è uno starnazzo, una corsa. I rozzi piedi delle oche pedalano affannati sul prato, i loro culi bianchi ondeggiano alla massima velocità: fino all’ingozzo, a bersi il grano giallo fino ad affogare. XYZ sta già andando via, si è girato e non le vede, nemmeno ci pensa più; mentre nella foschia iniziano a cadere le prime gocce di pioggia, miste all’odore di fumo di un fuoco di sterpi acceso da qualche parte…
*”impriapiti” “pàperano” sono sfacciati prestiti gaddiani, perdonabili esclusivamente nella misura in cui mi servono da pretesto per incoraggiare (a spintoni) i 3-4 capoccioni di lettori di questo blog a inoltrarsi nelle ben più degne (infinitamente) opere di Carlo Emilio. E a ciò in definitiva vi esorto con tutto il calore. Scontatamente consiglio, per un primo approccio, L’Adalgisa o Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, ma anche i racconti di Accoppiamenti giudiziosi potrebbero andare: seppur dotati di un valore esemplificativo dell’opera e della poetica gaddiana assai minore rispetto ai capolavori, sono assai più brevi e leggibili con minore sforzo e fatica. La cognizione del dolore e Eros e Priapo sono due autentici ossi duri, per appassionati. Vi auguro una buona lettura.

venerdì 21 ottobre 2011

I figli dei lazzari

Guardo i figli dei lazzari. Alti, slanciati, la loro magrezza non contiene nulla se non il più stretto essenziale. Vestiti poco, di nero; le loro grosse scarpe robuste e impolverate vagabondano per la città senza meta. Così come i loro corpi forti, veloci, senza lavoro, sono soltanto inutili bocche perennemente affamate. Gli resta il desiderio di avere tabacco e bottiglie e “qualche deca” al mese ed è tutto ciò di cui hanno bisogno per tirare a campare: ormai, l’unico obiettivo della loro vita. Il futuro è la voragine in cui è precipitato tutto quanto il resto; il lavoro è per chi ce l’ha già, per chi c’ha la bottega del babbo, per chi c’ha l’estero per andarci a studiare. Per i morbidi figli dei signori, col gilè lavato di fresco. Quanto diversi, loro, i loro corpi, fatti di muscoli cresciuti dalla palestra e dalla piscina, quanto diversi dai muscoli brutti spuntati per la strada come more nei rovi. Guardo i figli dei lazzari stare in piedi sotto il peso del sole di agosto, fare casino in piazza. I loro giochi ancora infantili confinano con la rissa e la rivolta. E il loro volto, sotto barbe incomplete ma già decise e mal rasate, mostra una determinazione invincibile a vivere. Una fame. E non basta a lenire la fame il lavoro alla giornata nel cantiere o nel mercato, quindi il loro volto si copre di una provvidenziale sciarpa o di un passamontagna nello scippo o nella rapina, o nell’arrotolare i lunghi cavi di rame rubati alla ferrovia, da rivendere. O nell’inutile rivolta di lanciare una tegola, un pezzo di mattone, sugli impeccabili berretti dei gendarmi nella ressa quando ci si avvicina al palco delle autorità. Ed eccoli i figli dei lazzari, a sputare per terra quando passa il vescovo, alla maniera degli zingari. A bere birra alle otto del mattino. A sgomitare tra le braccia forti degli sbirri, quando per l’ennesima volta li trascinano in questura. E i volti appiattiti dalla fame che fanno capolino tra le sbarre delle regie prigioni, di conseguenza. O i volti riempiti di rabbia, rigonfi, nelle liti per strada.

Lazzaro, s. m., parola nata a Napoli da genitori spagnoli e borbonici ("lazaro", lacero, miserabile), per designare la teppa o proletariato urbano miserello e perlopiù disoccupato. Da cui "lazzarone".