giovedì 19 luglio 2012

In certe giornate estive il sole


in certe giornate estive il sole si fa suono assordante – rumore bianco, insopportabile
che satura l’aria e il respiro. Non splende, non dà luce: abbaglia impietosamente, solidifica l’aria opaca in una
fotografia sovraimpressa, in un cemento; riduce la mente dell’uomo a una piccola bestia
agonizzante sul bordo della provinciale, mentre il traffico procede senza curarsene, lento, intento
stanco.
Sulle colline lontanissime, brune e brulle oltre al confine dell’aria incandescente
è ferma in piedi qualche spirale di fumo denso, immobile, bianco come cielo:
da qualche parte c’è un incendio, non ha importanza per noi. Un uomo negro
cammina oltre al paracarro, torna forse dal lavoro
o ci va forse. I suoi sandali schiacciano l’erba secca crepitante, che ha smesso ormai di crescere
i suoi abiti desertici, ampi, nascondono le forme del corpo alla vista – ed al sole.

Nella città nulla sembra vivo, donne velate o scollate camminano avvolte nell’odore del sudore, del catrame
bollente; qualche vecchio furioso uomo sta seduto nell’ombra, spia, si sporge alla strada: non ha
compagnia. Noi si beve qualcosa, si parla – non si riesce
a farci capire, a capire. Il suono del sole assorda e penetra
Tutto, ogni cosa, imputridisce e secca le acque del pensiero, vi pianta larve afose di noia, di insofferenza, di ignoranza – di sfortuna.
I colori si sono spenti, l’asfalto si sta sciogliendo: cammina giovane, finché puoi
fai come l’uomo negro
cammina via lontano.

21-6-12

venerdì 13 luglio 2012

Un ricordo


Non ci tornavo da anni, e quella volta per caso mi trovai a passarci vicino. Era un quartiere dove anni prima – in un’epoca che ormai mi sembrava lontanissima – ero solito andare a suonare, in una cantina. Una zona periferica, simile probabilmente a tante altre; per me non lo era. Camminavo nel viale di tigli all’ingresso di una biblioteca da quelle parti, dove mi era capitato di dover andare, e mi venne in mente di farmi in giro fino alla vecchia sala prove. Era a qualche isolato di distanza, avevo del tempo – era tardo pomeriggio, gli impegni della giornata erano finiti. Mi incamminai quindi, senza un preciso scopo, verso quella cantina – il tizio che ci faceva suonare lì era stato sfrattato perché era senza soldi, per questo avevo smesso di frequentare la zona.
Era una direzione insolita, per arrivarci. Ero abituato, una volta, a raggiungere il posto in pullman, con la pesante custodia del mio strumento accanto. Questa volta ci arrivavo a piedi, e da un’altra direzione, per una via circondata da condomini, abbastanza spoglia e monotona – questa sì, davvero uguale a mille altre. Il quartiere si era riempito di stranieri, mi sembrò: molti di più rispetto a qualche anno prima. C’era una donna dell’est che chiacchierava al cellulare, affacciata al primo piano di fronte al tramonto e ai palazzi lontani. Un uomo sulla sessantina che avrebbe potuto essere vietnamita, o comunque di quella parte del mondo; sulla porta di un’officina, con indosso una tuta blu macchiata d’olio nero, scherzava con una bambina di forse cinque anni. E infine anche un mio connazionale, anche lui intento a parlare al telefono, mentre frugava in un cassonetto estraendone lunghi cavi colorati, e qualche altro oggetto forse utile che disponeva con cura lungo il marciapiede. Aveva usato un pezzo di ferro per bloccare il coperchio del cassone e tenerlo aperto.
Raggiunsi il corso alberato dove passava il bus che una volta usavo per tornare a casa dalle prove. Dall’incrocio dove mi ero fermato riuscivo a intravedere di sbieco il parchetto di fronte all’ingresso della cantina – era, quest’ultimo, in un minuscolo cortile; una ripida rampa di cemento che scendeva verso quello che un tempo era stato indubbiamente un garage. Avevo sentito dire che adesso ci si era installata un’opera pia, o qualche stronzata simile. Il giardino pubblico lì davanti era frequentato da vecchi, da rumorosi bambini, e da qualche gruppetto di adolescenti inquieti e molesti; non c’erano giostre, non giochi come in molti giardinetti, solo certi grandi alberi che non avevo mai saputo riconoscere, una fitta siepe per confine su tre lati, e un vialetto costellato da panchine. A volte andavamo lì a fumarci uno spinello, dopo le prove più impegnative e le sedute di registrazione. Oppure mi capitava di andarci da solo, ad aspettare seduto su una panchina, quando arrivavo in anticipo e giù in cantina non c’era ancora nessuno.
Da dov’ero arrivato potevo vedere bene le cime di quegli alberi, dorate nel tramonto. Mi guardai intorno: mi venne in mente il sentiero spesso fangoso, sotto i castagni del viale, che bisognava percorrere per arrivare alla fermata più comoda, a un isolato e mezzo da lì. Ora ne avevano aggiunta una più vicina, e avevano costruito un marciapiede e una nuova pensilina, larga e lunga, col pavimento in asfalto – una volta era sterrata e così stretta che, nelle sere d’inverno, seduto alla panchina della fermata, bastava allungare i piedi e dare un calcio ai blocchi di ghiaccio che c’erano sul bordo della strada per farli finire in mezzo alla carreggiata, e vederli trasformare dall’impatto con una macchina ai settanta all’ora in nuvole cristalline effimere e brillanti, che in molto meno di un secondo si sarebbero dissolte nel buio.
Sfrecciò davanti a me un bus che mi avrebbe portato rapidamente a casa – e passava di rado. Senza pensare corsi alla fermata e salii a bordo. Non tornai mai più alla cantina.

Maggio ‘12

sabato 7 luglio 2012

inillemarg e occirab


I tuoi frullati son parole e sarebbero
idee
macinate per la bocca molle degli umili
di tutti, ma oramai disossate, disarticolate in chiacchiere
servite sul piatto – è da dire,
d’argento – che è la tua “cultura”, fondamento
del tuo conto
(così in cielo come in terra)
in banca.

Cerchi concentrici: dentro l’intelligenza
(lucidata accessibile, presunta leggera)
un’idiozia bottegaia farisea e – dopotutto – scontata:
l’ingenuità pesta che è di casa in ogni
contemporaneità
(che ne soffoca la vita con fiori violacei
di convolvolo).

4 luglio 2012

lunedì 2 luglio 2012

Il poeta e la città (luglio 2010)


Il poeta è un davanzale
La città una poltrona
Il poeta è angosciato
La città cogliona:

Il poeta non trova risposte
La città nemmeno, però non ha domande
Il poeta è nudo, la città elegante.

Il poeta è ladro
La città una prigione
(zeppa di sogni morti ammazzati
e di carnefici ex carcerati);
Come dire che il poeta è una mosca
La città ragnatela; il bar dove ogni mattina
Per abitudine fai colazione:
il poeta
è la rivoluzione – non oggi,
domani forse,
dopodomani di sicuro;
mentre regna ovunque la città.

Il poeta ama i miserabili
Perché sono la poesia del mondo.
La città per la stessa ragione li schiaccia,

Il poeta ti guarda male, la città con gli occhiali da sole
Si nasconde nel suo stomaco pieno:
il poeta è a digiuno.

La città è cancrena, il poeta fiatone,
il poeta è un discorso interrotto
La città il brusio in fondo all’aula, mai fermo.

La città, la città è come una puttana, un albergo
il poeta una montagna:
il poeta è essere tutto
La città è avere tutto,
in definitiva la città
è il mio portafoglio, il poeta
è solo una vecchia canzone.

Il poeta
l’ombra dei rami.

E in definitiva voi, amici cittadini
Avvolgetemi nella vostra bieca commiserazione
Cacatemi addosso la vostra simpatia, la buona educazione
Ma non state a chiedermi il motivo
Per cui amo bestemmiare:
io amo le parole, le amo tutte
e non faccio che ripetere con le parole mie
quello che è sparso per il mondo:
se vedo merda dirò Merda
non bocciolo di rosa, se vedrò il papa
dirò porcamadonna, e nessun’altra cosa.

giovedì 28 giugno 2012

L’infanzia di Simone: la scrittura del ricordo nella prima parte di Mémoires d’une jeune fille rangée

Il lavoro autobiografico ricopre, all’interno della produzione beauvoiriana, un ruolo cruciale: non solo per via della tetralogia autobiografica che ha tenuto occupata l’autrice dal 1958 al 1964, ma anche – e soprattutto – per il fatto che anche dietro i romanzi e la saggistica si cela una spinta che non può essere disgiunta dagli eventi che scandirono la biografia di Simone de Beauvoir[1]. Le tematiche della dottrina esistenzialista, dell’emancipazione femminile e della ribellione alle convenzioni borghesi, su cui si fonda gran parte dell’opera saggistica e letteraria di Beauvoir, sono legate a doppio filo con quello che fu il suo iter biografico. Questa è una delle ragioni per cui l’autrice ha sempre attribuito al proprio passato un’importanza capitale: già nel corso degli anni ’30 iniziano ad accavallarsi tentativi di esprimere, sotto forma di racconti, le esperienze vissute, dall’educazione alto borghese alla crisi religiosa alla storia di Zaza. E gli elementi autobiografici, ancora mascherati dalla finzione letteraria, trovano ampio spazio anche nei primi romanzi pubblicati[2].
È negli anni ’50 che Simone de Beauvoir si sente pronta a dedicarsi a una scrittura palesemente autobiografica, priva del “filtro” della finzione – ma non sprovvista, ovviamente, di elaborazione letteraria. Il patrimonio della vita vissuta, sul quale si fonda tutta l’opera dell’autrice, va preservato: il racconto dell’esperienza è necessario per strapparla all’oblio e all’annientamento, diventa necessità esistenziale[3]. Trasformare la propria esperienza in letteratura – ma senza nascondersi dietro a uno pseudonimo – non significa solo renderla eterna: allo stesso tempo è un atto di comunicazione con il lettore – “mais il s’agit alors de le séduire, de capter son amour, non de lui délivrer un enseignement”[4]; e un atto catartico, in grado di risolvere nodi rimasti dolorosamente in sospeso, come quello della morte di Zaza. Così si compie, in un certo senso, il voto della letteratura come vocazione, della scrittura come fonte di senso per l’esperienza umana.
Col presente lavoro si intende ripercorrere la prima parte dei Mémoires, in cui Beauvoir racconta la sua vita alla nascita all’inizio dell’âge ingrat, cercando di rintracciare alcuni di quegli elementi stilistici e tematici che ne fanno, più che una semplice autobiografia, una “généalogie du sujet”[5]. Allo stesso tempo, in questa prima parte sarà possibile ricostruire i processi dell’educazione borghese, cattolica e patriarcale, che contengono già in nuce gli elementi del loro superamento nel nome dell’indipendenza intellettuale ad opera di Simone de Beauvoir.
I: 1908-1914, la prima infanzia
Nelle prime pagine dell’opera predominano, sulla memoria dell’autrice, alcuni dati esteriori che lei ha reperito successivamente: in primo luogo la data precisa e la descrizione accurata del luogo di nascita con cui si apre la narrazione. Poi la fotografia: si tratta di un mezzo “scientifico” che permette di supplire alle mancanze della memoria, e anche se, successivamente, si narrerà la predilezione dell’autrice per gli album fotografici, solo qui la fotografia viene usata effettivamente come fonte di informazioni e descrizioni. Perciò prima dei ricordi sfocati della prima infanzia (“des mes premières années, je ne retrouve guère qu’une impression confuse: quelque chose de rouge, de noir, et de chaud”[6]) si possono già trovare un paio di quadretti familiari che forniscono spunti sui primissimi anni dell’autrice: il rapporto di superiorità con la sorella minore, la giovane età dei genitori (e la differenza di ben nove anni tra il padre trentenne e la madre). Dal primo periodo esplicitamente “fotografico”, in cui la narrazione è ambientata nel presente dell’autrice intenta nel ricordo (“je tourne une page de l’album”[7]) si passa a una descrizione fondata sulla consapevolezza[8], ovviamente vaga, che la bambina aveva in quei primi anni: qui prevalgono i colori e le impressioni, e si introducono, appena abbozzate[9], le figure che caratterizzeranno l’infanzia e l’adolescenza di Simone.
Il primo personaggio che incontriamo è la serva Louise, deputata a prendersi cura delle bambine: questa figura quotidiana e rassicurante verrà meno, nel corso dell’opera, parallelamente al crollo delle certezze che hanno sostenuto l’infanzia dell’autrice. Segue la madre, con la quale in questa fase pre-edipica c’è un legame “de perfaite symbiose et de totale dépendance affective”[10], caratterizzato dall’ammirazione per la bellezza della madre e dall’approvazione che quest’ultima dispensa alla figlia, due caratteristiche compresenti che si estinguono sempre in contemporanea: se la madre si arrabbia con Simone, immediatamente è imbruttita da un ”éclair orageux”[11]. Il padre ha per ora ben poca importanza: le sue convinzioni e la sua cultura, che ne faranno il nume tutelare dell’educazione intellettuale delle figlie, lo portano a lasciare alle donne di casa le incombenze relative alle esigenze della prole.
È proprio un bisogno fisico – l’alimentazione – a dare avvio alle prime inquietudini della bambina Simone: il dovere di mangiare è posto in relazione alla necessità di crescere – un fenomeno angosciante, per la bambina messa di fronte alla prospettiva di perdere la propria identità e la felicità della propria vita attuale. L’antidoto a quest’angoscia, per il momento, è la “coquetterie”[12] imposta dalle attenzioni dei parenti – che incontrano facilmente la complicità della bambina e riescono in tal modo a tenerne a bada “les forces de résistance au dressage”[13].
Queste ultime si ripresentano sotto forma di crisi di rabbia isterica e caratterizzano la vita di Simone fino alla Grande Guerra, che segnerà la completa sottomissione ai valori dei genitori. Prima che ciò accada, la piccola Simone prova per gli adulti sentimenti anche ostili: si sente “proie de leurs cosciences”[14], non sopporta l’idea di essere trattata “en bébé”[15], e sebbene abbia una frustrante consapevolezza della propria impotenza l’unico modo di affermare la propria individualità è per lei contrastare gli adulti; il solo strumento di cui dispone sono appunto le crisi di pianto e collera. Tutto questo ha luogo nonostante la bambina abbia già ben presente una distinzione nitida e rigorosa tra bene e male, concetti che, pur rimanendo entità completamente astratte, sono in grado di giustificare l’ordine stabilito dai genitori. È in quest’ambito che si fanno i primi accenni all’esperienza religiosa: la giovanissima Simone vede gli adulti pregare e associa immediatamente Dio alla sfera del Bene; ma la fede, per come è intesa in quell’ambiente sociale, è già dipinta come una pratica non meno astratta dei mostri che nell’immaginario infantile personificano il Male: è una delle contraddizioni che, quando la “jeune fille rangée” ne prenderà atto, provocheranno in lei la crisi religiosa.
Gli unici avvenimenti in grado di scuotere le coordinate fisse e immutabili di questo mondo infantile sono le occasionali liti tra i genitori: in questi casi è l’intera struttura etica del mondo di Simone a collassare; è ancora peggio di quando la madre sgrida la figlia privandola dell’approvazione con la quale lei giustifica la propria esistenza. La bambina fugge con cura i momenti e le situazioni in cui la distinzione fra Bene e Male sembra oscillare e annullarsi; e in questa fase della sua vita può ancora permetterselo: “les mythes et les clichés prévalaient sur la vérité: incapable de la fixer, je lassais celle-ci glisser dans l’insignifiance”[16]. Conseguenza di tutto ciò è una concezione “nominalistica” del linguaggio e del pensiero:
Puisque j’échouais à penser sans le secours du langage, je supposti que celui-ci couvrait exactement la réalité; j’y étais initiée par les adultes que je prenais pour les dépositaires de l’absolu: en designant une chose, ils en exprimaient la substance […]. Entre le mot e son objet je ne concerai donc nulle distance où l’erreur pût se glisser; ainsi s’explique que je me sois soumise au Verbe sans critique, sans examen[17]
I momenti in cui a Simone vengono fatte intuire le sfumature e le ambiguità del linguaggio portano a perplessità e dubbi assimilabili – pur essendo decisamente meno gravi – a quelli che investono la sfera dell’etica.
In questo quadro, è possibile comprendere come tutta una serie di questioni – dall’esistenza della divinità a come nascono i bambini – possano rimanere sostanzialmente irrisolte senza causare gravi inquietudini alla bambina Simone fino all’adolescenza, mantenendo in piedi una concezione del mondo che pure è pervasa dalle incongruenze e votata al collasso. Di fatto i quesiti insolubili vengono “rimandati” grazie a un compromesso con la realtà nel quale quest’ultima ha una parte ben magra: quando il sostegno di tale compromesso (la garanzia data dagli adulti) avrà termine, la rottura non potrà che essere completa e traumatica. Ma per ora il “dressage” della piccola Simone può procedere senza incontrare gravi ostacoli: da un lato perché la bambina, grazie alla presenza della sorella minore, può sentirsi più simile agli adulti[18]; dall’altro grazie ai primi esercizi di scrittura[19] e all’inizio della frequentazione del “cours Désir”, che forniscono alla narratrice ulteriori fonti di autoaffermazione e giustificazione correlate all’approvazione dei genitori – mentre nei primi anni era ancora possibile che l’autoaffermazione avvenisse contro gli adulti e le loro coscienze assimilatrici.
Contemporaneamente nascono la passione per i libri e quella per la natura, che rimarranno tratti costanti del carattere dell’autrice: entrambi forniscono alla Simone bambina delle possibilità di evasione dall’ambiente familiare felice ma angusto, in cui “les choses, plates comme des concepts, se réduisaient à leurs fonctions”[20]; prima le figure dell’atlante, poi maggiormente la natura lussureggiante delle estati passate nel Limosino aprono alla piccola delle prospettive non limitate dall’educazione che le viene impartita – mentre per quanto riguarda le letture sono già iniziate le prescrizioni[21]. Nel mondo della natura la bambina vede la possibilità di affermare la propria soggettività senza dover fare i conti con le figure limitanti – anche se ben accette – degli educatori. Da un lato, quindi, la bambina attraverso la scuola è portata ad associare l’autoaffermazione all’approvazione dei genitori; dall’altro le si aprono campi di esperienza individuale, come il contatto con la natura, svincolati dalle regole imposte dagli adulti. L’approccio alla lettura è entrambe le cose: incoraggiata dai genitori e soggetta ai loro divieti resta comunque in grado di dare alla piccola Simone delle possibilità di evasione – e, dopo la rottura col padre, di ribellione.
È appunto con l’inizio dell’educazione intellettuale che inizia a stabilirsi un po’ più nitidamente il rapporto con il padre: costui si qualifica subito come una figura originale rispetto a tutti gli altri adulti, eccezionale per la sua cultura e il suo fascino. Proprio nel momento in cui si pongono le basi del rapporto con il padre che tanta parte avrà in futuro arriva la notizia dell’inizio della prima guerra mondiale. Con quest’avvenimento si assiste alla vittoria completa sulle resistenze che la bambina ancora opponeva alla sua educazione, e all’imposizione dell’equilibrio che ne caratterizzerà la vita fino all’adolescenza.
II: 1914-1918, la Grande Guerra
Lo scoppio della guerra è l’evento che permette il successo del “dressage” della piccola Simone de Beauvoir[22] e ne consolida i rapporti con i genitori. Con la Grande Guerra il Male conosce finalmente un’incarnazione (i nemici tedeschi) e il padre ottiene ulteriori motivi di ammirazione in quanto militare in servizio; il conflitto viene identificato dalla bambina, grazie all’intermediario della famiglia nazionalista, come lotta tra il bene e il male, nella quale hanno un ruolo anche le potenze divine: in tal modo anche la religiosità della piccola Simone viene condizionata, e questo aumenta il sentimento di complicità con la madre. In poche pagine la trasformazione si compie: “je m’étais définitivement métamorphosée en enfant sage […]. Ainsi abdiquai-je l’indépendance que ma petite enfance avait tenté de sauvegarder. Pendant plusieurs années, je me fis le docile reflet de mes parents”[23].
È a questo punto che si inseriscono le biografie dei genitori. Del padre viene dato un profilo sociale di ampio respiro, a partire da quello che fu il bisnonno di Simone, per tracciare una serie di ritratti accomunati dall’ambigua situazione socioeconomica, a metà strada tra alta borghesia e piccola nobiltà. Il padre di Simone, fratello minore più legato alla madre che al padre, è una figura caratterizzata da questa ambiguità: a rigore, il suo milieu è quello borghese, ma egli lo disprezza nel nome di una passione per la cultura che non può e non vuole diventare professione – in quanto resta prono a un’ottica che vede gli educatori come figure subalterne. Tredicenne, perde la madre e resta con il padre “plus conscient de ses droits que convaincu de ses devoirs”[24], destinato a una condizione di sradicato che spiega la sua “vocazione” di artista dilettante (“la literature permet de se venger la réalité en l’asservissant à la finction”[25]) e allo stesso tempo la sua capacità di non rinnegare gli ideali del suo ambiente d’origine – la patria e la famiglia. Simone de Beauvoir ha visto in questa situazione del padre una sorta di anticipazione della sua: l’educazione in bilico tra una figura materna borghese e rigorosamente cattolica e una paterna scettica, individualista e socialmente ambigua si è di fatto ripetuta, solo che la Beauvoir ha conosciuto, a differenza del genitore, una vocazione più autentica per il lavoro intellettuale – almeno in parte proprio grazie alla passione per i libri e il teatro che il padre le ha trasmesso.
Il ritratto materno insiste, più che sull’aspetto sociale, sulla vita familiare e affettiva. L’ambiente solidamente alto-borghese e le carenze affettive hanno spinto la madre dell’autrice alla devozione religiosa e al matrimonio; “à vingt ans, engoncée dans des guimpes à baleine, habituée à reprimer ses èlans et à enfouir dans le silence d’amers secrets”[26], ha una visione della vita di coppia perfettamente compatibile con quella del padre di Simone, che vede la donna sacralizzata in quanto moglie e madre, inquadrata nelle coordinate di un rigido conformismo: “sa jeunesse, son inéxperience, son amour pour mon père la rendaient vulnèrable; elle redoutait les critique et, pour les éviter, mit tous ses soins à ‘faire comme tout le monde’”[27]. La morale cattolica la porta ad associare automaticamente l’idea della carne a quella del peccato, le usanze borghesi le fanno adottare un’etica che è di estrema severità con le donne, ma lascia liberi gli uomini. È questa la figura che inculca alla figlia Simone il senso del dovere, la timidezza causata dal terrore di essere sgridata. Il fatto che la sua educazione religiosa e quella intellettuale si siano svolte su percorsi eterogenei e paralleli ha portato la piccola Simone a relegare Dio “hors du monde”[28], come si è già visto fin dalla prima infanzia, il che non può che aver avuto un notevole peso nella sua successiva crisi religiosa.
Segue una descrizione della sorella minore: molteplici aspetti di inferiorità ne fanno, per la narratrice, una ulteriore fonte di affermazione negli anni dell’infanzia. Poupette è allo stesso tempo un doppio – ma in chiave minore – della sorella più grande, una complice nei giochi, e un’alunna che permette alla piccola Simone di esercitare l’arte dell’insegnamento e di sentirsi, a suo modo, “adulta” e autonoma: “quand je changeais l’ignorance en savoir, quand j’imprimais dans un esprit vierge des verities, je créais quelque chose de réel”[29]. Si tratta sicuramente del primo dei personaggi che costruiranno il percorso di emancipazione e liberazione di Simone de Beauvoir[30].
Il nucleo familiare, in questo momento della vita della narratrice, rappresenta per lei un alveo al riparo del quale è possibile vivere nella più completa serenità; le norme che regolano il mondo sono dettate dallo stile di vita dei genitori, visti come superiori a tutti gli altri adulti – anche ai più ricchi, perché “la vertu et la culture content plus que la fortune”[31]; la bambina è convinta di trovarsi in una situazione che va al di là delle differenze sociali, una sorta di “giusto mezzo” apparentemente in grado di comunicare con le sfere più alte e quelle più basse del congresso umano – anche se la realtà è ben diversa, e questa sarà un’altra delle scoperte traumatiche che attendono Simone al varco dell’âge ingrat.
Anche in questa situazione di stabilità fanno ritorno alcune questioni pressanti e irrisolvibili, tutte in relazione al fatto che la condizione di equilibrio e serenità della famiglia non è eterna: in qualche modo è cominciata e dovrà finire; in primo luogo dunque c’è il timore della morte, ma come antidoto è ancora sufficiente fa fede religiosa: “Dieu me promettait l’éternité”[32]. Poi il problema della nascita, che porta la bambina Simone a contestare per la prima volta – anche se inconsapevolmente – i dogmi della fede: posta di fronte alla questione della nascita della propria soggettività, rifiuta l’idea di essere stata creata ex nihilo. Lecarme-Tabone fa notare, a questo proposito, che la “conversione” di Simone de Beauvoir dalla fede cattolica all’impegno intellettuale “repose plus sur l’affirmation de soi que sur le rationalisme”[33]. Accanto a questi dubbi sulla preesistenza delle anime, se ne espongono alcuni in relazione ai procedimenti conoscitivi che permettono alla piccola Simone di conoscere il mondo, ma:
Aiguës parfois, mes inquiétudes se dissipaient vite. Les adultes me garantissaient le monde et je ne tentai que raramente de le pénétrer sans leur secours. Je préférais les suivre dans les univers imaginaires qu’ils avaient créés pour moi”[34]
In questa situazione di serenità anche le letture, ancora rigidamente sorvegliate dai genitori, svolgono una funzione rassicurante e stabilizzante: a differenza dei caotici oggetti del mondo i libri “parlaient et ne dissimulaient rien; en mon absence, ils se taisaient”[35], e solo raramente sono in grado di portare la narratrice a riflettere realmente su ciò che la circonda, in quanto per ora sono concepiti come oggetti estetici privi di presa sul reale (“comme un spectacle de marionnettes ou une image”[36]). Nonostante questo, la letteratura almeno in parte è già in grado di ampliare gli orizzonti della piccola Simone, in particolare quando la bambina prova per la prima volta a scrivere. Il gesto della scrittura assume i connotati di una funzione religiosa[37] (quasi profeticamente, vista quella che sarà la vocazione o “conversione” dell’autrice) e segna un passo decisivo nella nascita della passione di Beauvoir per la letteratura, che inizia a fare sempre maggiore presa sul suo immaginario e sulla sua vita quotidiana.
In questo periodo sereno la narratrice affronta per la prima volta con un’altra questione cruciale: il rapporto tra uomini e donne. L’assenza di fratelli le impedisce di sperimentare su di sé le eventuali disparità – e i divieti che la bambina subisce vengono imputati più alla sua età che al suo sesso. Inoltre, sebbene i parenti maschi siano visti come superiori alle loro consorti, queste ultime mantengono un ruolo primario nella vita quotidiana delle bambine: questo fattore congiura dunque a mantenere statica la situazione attuale, non stimolando riflessioni che potrebbero portare la narratrice al rifiuto delle norme vigenti. Anche qui, però, si iniziano a intravedere alcuni aspetti di quello che sarà il successivo itinerario di Simone de Beauvoir: l’educazione puritana le instilla un timore della propria fisicità che avrà gravi ripercussioni nell’adolescenza e che pone le basi del rifiuto precoce della maternità[38]; nei suoi giochi infantili, la bambina rigetta appunto tutti gli aspetti fisici della maternità e della vita coniugale: la bambola Blondine, più che un bebè da nutrire, è un’alunna ideale che si presta ancora di più della sorella minore al precoce desiderio di insegnare della piccola Simone; la figura del marito è concepita come assente: “je refusai qu’un homme me frustrât de mes responsabilités: nos maris voyageaient”[39]. Così nasce per la prima volta il proposito di diventare un’educatrice, e in questo momento l’idea pare così innocente e assurda da scatenare le risate dei genitori – e invece si concretizzerà come conseguenza del tracollo economico e del manifestarsi sempre più schietto delle inclinazioni della figlia.
Qui avviene anche il primo incontro con il cugino Jacques, maggiore di tre anni. Il personaggio, che tanta parte avrà poi nella vicenda, è per ora presentato dalla prospettiva che ne ha la bambina Simone[40]: ragazzino intelligente e dotato nello studio, impressiona la cugina per la sua confidenza con gli adulti, e l’amicizia che le tributa la colma di soddisfazione al punto che i due scelgono di diventare “mariés d’amour”[41].
Il ritratto che l’autrice traccia di sé stessa all’età di otto anni – al culmine di questo processo educativo – è ambiguo: la “petite fille rangée, hereuse et passablement arrogante”[42] è decisamente meno coraggiosa e sicura di sé di quando era una bambina in preda ai capricci e alle crisi di pianto. L’educazione rigorosa che l’ha sottomessa inizia già a mostrare i suoi danni, in particolare quando la bambina entra in contatto coi suoi coetanei più ricchi, vitali e disinvolti: “je me sentis soudain gauche, poltronne, laide: un petit singe […]; ils me méprisaient: pire, ils m’ignoraient”[43]. Allo stesso modo, quando per la prima volta si allontana dal nucleo familiare, la piccola Simone perde completamente i punti di riferimento che le permettono di orientarsi nel mondo: “j’avais besogne d’être prise dans des cadres dont la rigueur justifiait mon existence”[44]. La situazione di serenità garantita dalla famiglia, per quanto apparentemente irenica e stabile, mostra già la sua precarietà e i suoi effetti devastanti sul soggetto.
Nel corso dell’ultimo anno di guerra si anticipa, in parte, quella che sarà la condizione futura. I Beauvoir sono sottoposti a condizioni di miseria materiale[45] che privano di gran parte dei suoi caratteri positivi la prospettiva della vita in famiglia, e molti di quelli che erano i fondamenti del mondo infantile di Simone vacillano: le liti tra i parenti sono ormai all’ordine del giorno, i tedeschi per la prima volta vengono raffigurati come uomini e la guerra fa conoscere tutto il suo orrore, al punto che la bambina “terriblement chauvine”[46] del 1914 arriva a pregare per la pace subendo i rimbrotti della madre; è il primo dissidio ideologico con la famiglia, anche se ancora a livello di slancio infantile, e sebbene non abbia conseguenze concrete apre a Simone nuovi orizzonti di riflessione: “j’avais peine à admettre qu’une idée pût être coupable”[47].
III: 1918-1919, il dopoguerra
L’ultima sezione della prima parte di Mémoires d’une jeune fille rangée vede il conformismo della protagonista delinearsi sempre di più come una necessità illusoria vincolata al suo bisogno di giustificazione[48]; non è un caso se nelle pagine successive all’armistizio si insiste così tanto sul rapporto tra i doveri della bambina e il suo ruolo nel mondo: “mon devoir se confondait donc avec mes plaisirs. C’est pur cela que mon existance fut, à cette epoque, si hereuse […]. J’occupais ma place sur terre et je faisais ce qui devait être fait”[49]. Parallelamente, a mostrare il carattere sempre più illusorio di questa obbedienza necessaria, tornano i capricci legati all’alimentazione e si fanno più forti e serie le obiezioni al matrimonio. Inizia a prefigurarsi il carattere particolare che condurrà Simone de Beauvoir alla filosofia: “je crois aussi que je tenais pour négligeable le travail d’exécutant parce qu’il me semblait ne produire que des apparences. […] Créer, c’était une autre affaire”. Questa spinta verso l’essenziale si declina per ora in termini di lettura e tentativi di creazione letteraria, ma vi si può già riconoscere la tendenza che, anni dopo, condizionerà gli studi di Simone: “je n’avais jamais eu le goût du détail; je percevais le sens global des choses plutôt que leurs singularités, et j’aimais mieux comprendre que voir; […] la philosophie me permettait d’assouvir ce désir”[50].
Altra grande passione è il teatro, ed è proprio in relazione ad esso che il rapporto col padre giunge al suo apice, quando egli porta la figlia a uno spettacolo, instaurando una complicità che la porta ad avere “l’impression grisante qu’il n’appartenait qu’à moi”[51]; si tratta di gran lunga del momento di maggior prestigio del genitore, destinato ad offuscarsi nel giro di pochi mesi con l’inizio della pubertà della narratrice: non è un caso se in queste pagine si ripresenta, e in maniera esplicita, la paura del cambiamento[52] di una situazione che si vorrebbe eterna; questa angoscia investe nuovamente la protagonista messa di fronte all’idea del matrimonio, ma ancora una volta lo scontro viene rimandato dai genitori, che sottovalutano la refrattarietà della figlia.
Il rapporto con la religione è un altro aspetto della vita di Simone in cui di rispecchia la futura crisi dei suoi valori: la preghiera si trasforma in un’ulteriore improbabile fonte di autoaffermazione in contrasto con gli stessi valori cristiani[53], il che non potrà che accrescere le successive delusioni. Allo stesso tempo inizia a emergere sempre più visibilmente il carattere effimero e vacuo di molte prescrizioni legate alla fede – carattere dovuto, in verità, al carattere effimero e vacuo della fede stessa per come è concepita nell’ambiente che l’ha imposta alla narratrice: “Dieu interdisait beaucoup de choses, mais ne réclamait rien de positif”[54]. Questi fattori conducono l’undicenne Simone a “réleguer Dieo hors du monde” in modo ancora più estremo, e a elaborare come via di fuga dal matrimonio un nuovo “alibi”[55] per l’avvenire: entrare in convento.
Altro tema che fa ritorno è quello dell’esplorazione della natura, della quale si accentuano, rispetto al passato, i caratteri di libertà e indipendenza dai genitori; la routine delle vacanze in campagna è anche momento di letture, e in quest’ambito si impongono con forza i divieti della madre[56], posti dalla narratrice in relazione all’”inconvenant”. La parola, associata prima alle funzioni corporali, poi a una serie di comportamenti e di libri vietati, finisce per legarsi alla riproduzione e ai rapporti sessuali ad opera dei suggerimenti della cugina Magdeleine, di cultura più libera. La sfera della sessualità resta comunque inesplorata, prevalentemente a causa del disinteresse che la protagonista nutre a riguardo in conseguenza della sua educazione puritana.
È in merito alle letture vietate e al problema della riproduzione che iniziano a trasparire maggiormente i dubbi sulla religione. In primo luogo, la storia di una ragazzina condotta al suicidio dai libri proibiti, raccontata in un predica, induce la protagonista a riflettere: “elle s’était seulement exposée sans précaution à des forces oscure qui avaient ravagé son âme; pourquoi Dieu ne l’avait-il pas secourue? […] Ce qui je comprenais le moins, c’est que la connaissance conduisît au désespoir”[57]; nascono dubbi “sur la fragilité de l’apologétique chrétienne, sur l’absence de preuves irrefutables de l’existence de Dieu, sur l’ambiguïté de la notion de grace”[58], e quella che fino a questo momento era stata una base per l’autoaffermazione della protagonista inizia a scontrarsi con la sua individualità raziocinante. Per quanto riguarda l’”inconvenant”, è la questione della nascita a interessare maggiormente la narratrice; ma mentre un tempo bastava un generico accenno alla volontà divina per risolvere il problema, ora la faccenda è più complicata: “les miracles à part, Dieu opère toujours à travers des causalités naturelles: ce qui se passe sur la terre exige une explication terrestre”[59]; a riguardo si accavallano quindi ipotesi anche grottesche, che lasciano sostanzialmente ignoto il vero rapporto tra le “cose sconvenienti” e la nascita dei bambini e rafforzano ulteriormente la diffidenza di Simone nei confronti del proprio corpo e dell’idea della maternità.
Malgrado l’educazione puritana che insegna a disdegnare il corpo, la narratrice ha un ultimo ritorno di “coquetterie” prima dell’adolescenza che ne segnerà il rapporto con la fisicità: complici alcuni eventi della vita religiosa e familiare – la prima comunione, il matrimonio di una zia – Simone arriva persino a immaginarsi con soddisfazione vestita da sposa[60], e a interessarsi ala sua futura immagine. La lettura di Little Women fornisce un modello nel quale la protagonista si immedesima in quanto intelligente e povera; nella superiorità di Joe, insita nella sua sete di conoscenza che la distingue dalle coetanee, la narratrice vede un riflesso della propria, fondata sulle letture e sui successi scolastici; in questo momento Simone de Beauvoir afferma già la sua diversità nei confronti delle sue compagne: “plus jolies, plus gracieuses, plus douces que moi, ma soeur et mes cousines plairaient davantage […]; elles trouveraient des maris: moi pas”[61]. Il destino di intellettuale, che la protagonista si impone senza esserne pienamente cosciente, per ora va di pari passo con un’esigenza di autoaffermazione che è sempre meno soddisfatta dai valori della famiglia.
La sezione che chiude la prima parte (come d’altra parte i finali di tutte e quattro) è dedicata al personaggio di Zaza. L’incontro con la futura migliore amica segna un punto di non ritorno: è la prima figura a riscuotere l’ammirazione della protagonista proprio per merito della sua originalità. Simone, che come abbiamo visto sta iniziando a elaborare una sua propria identità indipendente dai soggetti e dai valori che finora hanno governato la sua esistenza, si trova per la prima volta a contatto con un personaggio che in qualche modo è già padrone della propria individualità. Élizabeth Mabille è segnata dalla cicatrice di un’ustione che la caratterizza e le conferisce un’aria di importanza e maturità; si esprime con naturalezza parlando agli adulti – come Jacques – e si permette persino qualche piccola infrazione delle regole. Per la prima volta, parlando con la nuova amica la narratrice partecipa a un vero atto di comunicazione: “entre ma soeur et moi, il n’y avait pas la distance indispensabile aux échanges. Avec Zaza, j’avais de vraies conversations, comme le soir papa avec , maman”[62]. Anche se queste conversazioni non sfociano ancora in una vera e propria confidenza, un’assenza di Zaza da scuola porta la narratrice a rendersi conto di quanto l’amica le sia diventata indispensabile. “Ce sentiment se distingue des amitiés tempérées autorisées par leur mileu mais aussi des émois sensuels qui unissent parfois deux adolescentes”[63]: per la prima volta in vita sua, l’adolescente vive un rapporto umano non implicato dal conformismo che fino ad allora aveva dettato le regole dei suoi sentimenti; è un passo decisivo, accanto ai sintomi di crisi che si stanno manifestando nei campi della religione e della fiducia negli adulti, verso quello che sarà il successivo processo di emancipazione e conquista della libertà intellettuale di Simone de Beauvoir.


[1] Lo fa notare, ad esempio, Ingrid Galster in relazione a Le deuxième sexe (Galster I., Beauvoir dans tous ses états, Tallandier, Paris 2007, p. 160).
[2] Lecarme-Tabone É., Éliane Lecarme-Tabone commente Mémoires d’une jeune fille rangée de Simone de Beauvoir, Gallimard, Paris 2000, pp. 26-27.
[3] Ivi, p. 45.
[4] Ivi, p. 46.
[5] Come l’ha definita Toril Moi, Galster, op. cit., p. 270.
[6] De Beauvoir S., Mémoires d’une jeune fille rangée, Gallimard, Paris 1958, p. 11.
[7] Ibid.
[8] La narratrice si sforza infatti di “restituer avec scrupule l’expérience de l’heroïne en respectant les perceptions, les sentiments, les idées et le savoir du personage” (Lecarme-Tabone, op. cit., p. 159).
[9] “Simone de Beauvoir pratique avec une attention particulière la focalisation interne par l’héroïne à propos  des personnages qui l’entourent, dans la mesure où les informations que la narratrice livre sur eux n’excédent jamais le savoir de la protagoniste” (ivi, p. 160-161). Per questa ragione gran parte dei personaggi vengono rappresentati attraverso ritratti successivi che accrescono man mano il bagaglio di informazioni su di essi, sfociando talvolta in vere e proprie brevi biografie, come si vedrà per i genitori.
[10] Ivi, p. 106.
[11] Beauvoir, op. cit., p. 12.
[12] Lecarme-Tabone, op. cit., p. 177.
[13] Ivi, p. 59.
[14] Beauvoir, op. cit., p. 21.
[15] Ibid.
[16] Ivi, p. 27.
[17] Ibid.
[18] “Il me parut normal que l’on continuât de mystifier ma petite soeur. Moi j’avais passé du côte des adultes, et je présumai que dorénavant la vérité m’était garantie”, ivi, p. 30.
[19] Anch’essi non senza incompletezze e aporie: “l’intelligence du signe n’entraîna pas celle de la convention. C’est pourquoi je résistai vivamente quand bonne-maman voulut m’enseigner mes notes”, ivi, p. 31; è un complesso di nozioni, quello che viene impartito dalla famiglia a Simone de Beauvoir, che mostra le sue crepe fin dai rudimenti.
[20] Ivi, p. 34.
[21] Ivi, p. 29.
[22] “La deuxième étape de cette première partie (correspondant à la durée de la guerre) pourrait s’intituler ‘Portrait d’une petite fille rangée’”, Lecarme-Tabone, op. cit., p. 60.
[23] Beauvoir, op. cit., p. 44.
[24] Ivi, p. 46.
[25] Ivi, p. 48.
[26] Ivi, p. 52.
[27] Ivi, pp. 52-53.
[28] Ivi, p. 57.
[29] Ivi, p. 62.
[30] Lecarme-Tabone, op. cit., p. 69.
[31] Beauvoir, op. cit., p. 65.
[32] Ivi, p. 66.
[33] Lecarme-Tabone, op. cit., p. 79.
[34] Beauvoir, op. cit., p. 68.
[35] Ibid.
[36] Ivi, p. 69.
[37] “Assise devant une petite table, je décalquai sur le papier des phrases qui serpentaient dans ma tête […]. Il me semblait que j’officiais”, ivi, p. 70.
[38] Lecarme-Tabone, op. cit.,p. 178.
[39] Beauvoir, op. cit., p. 76.
[40] In maniera analoga ai genitori, ne verrà tracciata una breve biografia quando il suo ruolo sarà meglio definito. Inoltre il racconto della sua morte oltrepasserà i limiti cronologici di questo primo volume autobiografico, assumendo un peso quasi equiparabile a quello della vicenda di Zaza.
[41] Ivi, p. 82.
[42] Ibid.
[43] Ivi, p. 83.
[44] Ibid.
[45] Ivi, pp. 84-88.
[46] Ivi, p. 39.
[47] Ivi, p. 87.
[48] Lecarme-Tabone, op. cit., p. 61.
[49] Beauvoir, op. cit., pp. 89-90.
[50] Ivi, p. 208.
[51] Ivi, p. 95.
[52] Ivi, p. 96.
[53] “L’orgueilleuse fillette faisait de ses tête-à- tête avec Dieu l’occasion d’une autocélébration, fort éloignée de l’humilité chrétienne”, Lecarme-Tabone, op. cit., p. 80.
[54] Beauvoir, op. cit., p. 99.
[55] Ivi, p. 100.
[56] Ivi, p. 109.
[57] Ivi, p. 111.
[58] Lecarme-Tabone, op. cit., p. 79.
[59] Beauvoir, op. cit., p. 112.
[60] Ivi, p. 117.
[61] Ivi, p. 119.
[62] Ivi, p. 121-122.
[63] Lecarme-Tabone, op. cit., p. 125.