lunedì 20 febbraio 2012

Flusso 2 (fine di ottobre '11)

Sul pullman c’era un figlio di puttana con un impermeabile tale e quale all’ispettore Gadget. C’avete presente il cartone, no? Allora, questo qua – della mia età, circa – se ne sta seduto di fronte a una bella ragazza, che lo sta a sentire col mento affondato nella sciarpa vaporosa. Gadget ha per l’appunto questo iperbolico cappotto, una professionalissima enorme borsa di cuoio, pantaloni rossi accesi immacolati, scarpe scicchettose nere con decorazioni pure rosse, asimmetriche; occhiali spessi – montatura nera rettangolare, ingombrante. Capelli pettinati verso l’alto con la massima cura, più corti ai lati – quasi rasati, e più lunghi, lisciati, al sommo della crapa. Di sinistra ma liberal, alternativo ma conforme alle buone convenzioni, magrolino, belle manine curate. Chissà che stronzate tiene nella sua borsona, chissà che belle stronzate combina nella sua vita. Di certo ha solo l’aria del totale deficiente, che sbandiera in piena vista: parla ad alta voce, con disprezzo affettato, di un tale uomo che lui conosce, il quale sarebbe totalmente incapace di abbinare saggiamente i colori: per apparire bene. La tipa lo ascolta interessata – oca! – mentre quello punta il piede contro il di lei sedile e dà colpetti sotto, proprio sotto il culo. sotto il suo culo, suo di lei! Non c’è più religione. In più, il Gadget si è messo a guardare i miei jeans luridi e sformati, chissà che non gli interessino per qualche abbinamento di colori. Poi me ne frego, affanculo mr Gadget.

mercoledì 15 febbraio 2012

Flusso 1 (29 settembre, 2 e 5 ottobre '11)

E fu così che scopersi che i Rem si erano sciolti; in realtà era già passata almeno una settimana, ma a conti fatti la cosa per me non aveva più nessuna importanza; o quasi. Per cui me ne andai alla stazione. Su uno dei sedili del bus qualche pennarello aveva scritto: autista di merda; e c’era vicino una pubblicità di assicurazioni o di una banca che recitava obbediente: c’è solo un posto dove tutto diventa più semplice; ma plausibilmente quello stesso pennarello aveva aggiunto: sotto terra; poi mi misi ad osservare un imbecille con una certa capigliatura impomatata e curatissima, impegnativa, che ciangottava al telefono chissà che cose incomprensibili, con voce di granchio; esatto, sembrava non avere voce; e pure a un granchio lo avvicinavano i suoi pantaloni rossastri, attillati su quelle che dovevano essere delle zampe da grassissimo crostaceo; aveva anche una bella camicia; e passò fuori dai vetri un pullman della scuola di applicazione, e io senza cattiveria pensai: stiàntati. Sul treno, poi, invece c’era una lattina che andava, andava, senza che nessuno la fermasse sul pavimento sporco, e incontrai un tizio grande e grosso (grasso) sulla quarantina che parlava da solo, e ripeteva: drogato, drogato; e una ragazza, e un odore inspiegabile di hashish; e un nano insieme a una signora (non nana) con un trolley, e il nano la chiamava zia, e chiacchieravano del più del meno, ma io non potevo sentire tutto, e a un tratto il nano si infervorò parlando di un tale che lui conosceva e disse: è sempre contento, come gli idioti. Mi si sgonfiò il sorriso.

giovedì 9 febbraio 2012

Michail Bachtin e l’idea nel romanzo polifonico di Dostoevskij

I
L’analisi che Bachtin compie riguardo alla poetica di Dostoevskij è, come è noto, volta a dimostrare l’importanza del concetto di polifonia nell’opera dello scrittore russo: “nuovo modello artistico del mondo”, la polifonia è ritenuta essere il principale carattere di originalità e di innovazione di Dostoevskij, presente, negli autori precedenti, solo in maniera sporadica e parziale, e comunque mai utilizzata come vera e propria matrice di una poetica. Questa peculiarità ha per Bachtin un’importanza cruciale, al punto di riflettersi su tutti gli aspetti dell’opera dostoevskiana e con particolare intensità su quelli della concezione del personaggio e dell’impostazione dell’idea, ai quali dedica due capitoli del suo saggio.
Fin dal primo capitolo di Bachtin, dedicato alle interpretazioni critiche già esistenti del romanzo polifonico di Dostoevskij, emerge la portata dell’influenza che la nuova poetica polifonica ha sull’idea e sul ruolo che essa riveste nei romanzi. Innanzi allo sguardo dei critici “l’opera di Dostoevskij si spezza in una serie di filosofemi autonomi e contraddittori sostenuti dai suoi eroi. Tra essi figurano, e non certo al primo posto, le concezioni filosofiche dell’autore stesso”. I personaggi e i romanzi di Dostoevskij sono costruiti in modo tale da spezzare l’orizzonte monologico che fino ad allora, per Bachtin, aveva dominato in modo quasi assoluto la letteratura, e permettono al lettore di trovarsi ad ascoltare non l’unica voce di un autore/narratore, ma un’autentica pluralità polifonica di pensieri e idee differenti.
Oggetto del lavoro del narratore non è più un personaggio col suo mondo, bensì lo sguardo del personaggio sul suo mondo: in questo modo, il personaggio cessa di essere oggetto e diviene soggetto della narrazione. Non si tratta più di un personaggio semplicemente cosciente, bensì di un personaggio “ideologo” e autocosciente, che formula pensieri su sé stesso e sul mondo: “la parola sul mondo si fonde con la parola confessoria su sé stesso”, e le categorie dell’autocoscienza di espandono arrivando a condizionare l’intera visione del mondo del personaggio; l’autoenunciazione diventa autoaffermazione, dichiarazione della propria verità di fronte alla verità del mondo. L’autocoscienza cessa di essere semplicemente una proprietà caratteriale dei personaggi, e diventa strumento in grado di evidenziare la scissione interna di ogni personalità, tra il modo in cui essa viene definita dall’esterno e quella in cui essa aspira a autodefinirsi. E “l’idea aiuta l’autocoscienza ad affermare la propria sovranità”, per cui l’intenzionalità dell’idea del personaggio è una componente essenziale del suo tentativo di costruire la propria identità, di affermarla di fronte al mondo. È questa la base dell’affermazione che apre il capitolo di Bachtin sull’idea: “l’obiettivo polifonico non è conciliabile con il monoideismo di tipo comune”.
In un mondo artistico “monoideistico” e monologico, dominato in modo esclusivo dalla parola dell’autore-creatore, l’intenzionalità dell’idea dei personaggi va irrimediabilmente perduta: “l’idea cessa di essere idea e diviene una semplice caratterizzazione artistica”, messa in bocca ai personaggi da un autore completamente padrone della sua creazione, la cui idea personale rimane vera in generale e al di sopra di tutte le altre posizioni espresse nell’opera. Sulla coscienza dell’autore sono basati i pensieri significanti, e la sua concezione del mondo non è oggetto di rappresentazione, ma di affermazione attraverso la rappresentazione; gli eventuali pensieri altrui sono presenti in quanto oggetto di confutazione, oppure come semplici elementi caratterizzanti dei personaggi: questi ultimi, oggetti della rappresentazione, non possono ”rispondere” all’autore. Se si ha una concezione monologica della creazione artistica non è dunque possibile una raffigurazione letteraria dell’idea, che resta soggetto di affermazione o negazione, oppure esperienza psichica priva di significatività diretta.
“I principi del monologismo ideologico hanno avuto la loro espressione più chiara e teoricamente evidente nella filosofia idealista. Il principio monistico, cioè l’affermazione dell’unità dell’essere, si trasforma nell’idealismo in principio dell’unità della coscienza.”
Questa è per Bachtin la base filosofica del mondo artistico monologico, e di particolare rilievo risulta il processo per cui l’unità dell’essere diventa unità della coscienza: coscienza unica e sola rispetto alla quale la moltitudine delle coscienze umane perde di peso e importanza. La pluralità delle coscienze diviene un fatto casuale, empirico, e i caratteri individuali delle singole coscienze sono conoscitivamente inessenziali: qualsiasi giudizio vero non è agganciato alla personalità, ma soddisfa un unico contesto sistematico-monologico. Se la verità è universale, “solo l’errore individualizza”. Facile intravedere le ripercussioni di tali concezioni sulla produzione artistica: in un mondo in cui c’è spazio per una sola coscienza, quelle create per i suoi personaggi da un autore di romanzi sono irrimediabilmente parziali e accessorie, finalizzate all’opera stessa e totalmente controllate.
In forte polemica con l’idealismo, Bachtin afferma che “dal concetto stesso di verità unica non deriva affatto […] la necessità di un’unica coscienza”, ed è invece possibile pensare una verità che richieda una pluralità di coscienze, e che, non potendo nascere entro i limiti di una sola di esse, abbia origine proprio dal rapporto dialogico che le unisce. Tale rapporto, nel monologismo filosofico, è escluso, visto il mancato riconoscimento all’individualità delle coscienze: se si punta a produrre esclusivamente giudizi universalmente validi, è improponibile l’idea di metterli in discussione – e l’unico dialogo possibile rimane quello pedagogico, a senso unico, tra chi sa e chi non sa, perché non si suppone l’esistenza di una terza posizione. Si può concepire l’idea solo come frutto del lavoro di una sola coscienza. Bachtin attribuisce questa posizione al razionalismo europeo illuminista (culto della ragione unica) e al socialismo utopistico (fede nella persuasione), fautori del consolidamento del principio monologico come base della creazione ideologica nella modernità.
La prosa artistica moderna si è formata, nei suoi principali generi, proprio in epoca illuminista, e in essa regna pertanto un’impostazione monologica dell’idea. “Tutte le idee affermate si fondono nell’unità della coscienza veggente e raffigurante dell’autore; quelle non affermate vengono distribuite tra i personaggi” e, in quanto non affermate, cessano di essere pienamente significanti: “l’individualità uccide la significatività”(1). L’idea affermata dall’autore svolge, in questo mondo artistico monologico, una funzione triplice: è principio della visione e raffigurazione del mondo, in base al quale il materiale dell’opera è scelto e diviene unitario; può essere deduzione data a partire da ciò che è raffigurato; e può riflettersi sull’opera in quanto posizione ideologica del personaggio principale.
In primis, l’idea è dunque fattore determinante per la forma dell’opera e, di fatto, per le caratteristiche dei vari “generi”, che nascono nel corso dei secoli dagli strati profondi dell’ideologia formativa – e uno di questi strati profondi è proprio il monologismo artistico qui preso in esame da Bachtin. Può essere poi “risultato semantico della raffigurazione”, per cui il mondo diviene oggetto di una deduzione la cui forma influenza il genere e le caratteristiche della creazione letteraria: l’opera può essere dunque semplice esempio o paradigma di un’idea, oppure materiale di una generalizzazione ideologica. Variabile è anche il grado in cui la deduzione ideologica, presente di fatto in tutte le narrazioni, influenza l’opera: la deduzione può comparire sotto forma di semplici accenni – che comunque non devono contraddire gli accenti formativi dell’opera – o arrivare a svolgere il ruolo di fondamento della raffigurazione, come nel romanzo filosofico. L’esempio citato da Bachtin è il Candide di Voltaire, opera volta a confutare la dottrina ottimistica leibniziana – che vi appare esposta dal precettore Pangloss, ma svilita e abbassata a parodia di sé stessa, quindi privata del suo effettivo valore semantico.
Ugualmente importante può essere la posizione semantica del protagonista, il cui punto di vista può passare dallo status di oggetto di rappresentazione a quello di principio della stessa. Si presuppone, in tal caso, che i principi che dominano la raffigurazione ideologica condotta dall’autore coincidano con i principi ideologici espressi dal personaggio – il che non implica necessariamente una coincidenza contenutistica dei pensieri del personaggio con le concezioni ideologiche dell’autore. In questo caso, la prossimità che lega autore e protagonista fa sì che quest’ultimo, a differenza dei personaggi comuni, non sia internamente compiuto e concluso, così come non lo è l’autore; questo personaggio principale incarna di fatto la voce dell’autore, e domina monologicamente la narrazione.
Sotto tutti e tre questi profili, e anche nel caso in cui lei idee dell’autore siano semplicemente sparse nell’opera in forma di digressioni che non si fondono con l’identità di alcun personaggio, l’intera raffigurazione è assoggettata a un unico accento, che è quello dell’ideologia dell’autore. Le idee dell’autore sono le sole a conservare pienamente il loro significato, e non sono raffigurate ma affermate; qualsiasi idea estranea ad esse è destinata a essere assimilata, negata polemicamente o a cessare di essere un’idea: bisogna infatti ricordare che “la raffigurazione artistica di un’idea è possibile solo là dove essa mette da parte affermazione o negazione, ma nello stesso tempo non si abbassa a semplice esperienza psichica, priva di diretta significatività”.
II
La grande innovazione del romanzo polifonico di Dostoevskij sta appunto nel superamento di questo limite. Dostoevskij è capace di “raffigurare l’idea altrui conservandone tutto intero il significato”, il che significa non sminuirla a caratterizzazione dei personaggi, non negarla e nemmeno farla propria affermandola. I personaggi cessano di essere oggetti morti della raffigurazione: una volta che essi sono divenuti soggetti, le loro idee possono essere raffigurate.
Il personaggio di Dostoevskij è infatti uomo d’idea, non “tipo” socialmente caratterizzato, interiormente compiuto ed esteriormente concluso, bensì “uomo nell’uomo”, figura autocosciente e liberamente indefinita, scissa. Tale personaggio è dotato di un “nucleo incompiuto”, ed è a questo nucleo che si rivolgono dialogicamente gli altri personaggi e l’autore stesso. Tutti i personaggi principali delle opere di Dostoevskij sono ascrivibili a questo modello di “uomo d’idea”, è questo il requisito da soddisfare per poter partecipare al “grande dialogo” dei romanzi dostoevskiani: i protagonisti interrogano tormentosamente in primo luogo sé stessi, poi la realtà che li circonda, alla ricerca di una definizione ideale che con può essere costruita se non dialogicamente. “Il suo spirito è prigioniero. Vi è in lui un’idea grande e ancora insoluta. Lui è di quelli che non hanno bisogno di milioni, ma di portare a soluzione la loro idea” dice Alëŝa di Ivan in un dialogo con Rakìtin, e l’indefinitezza che il fratello minore “diagnostica” in Ivan può essere vista come una sintesi del destino di molti protagonisti dostoevskiani: il doloroso tentativo di determinare, definire l’idea è la missione della loro vita (“sono assolutamente disinteressati, in quanto l’idea ha conquistato il nucleo profondo della loro personalità”). Questo fortissimo legame (quasi un’identità) tra il personaggio e la sua idea è una delle condizioni fondamentali per la raffigurazione dell’idea in Dostoevskij.
Secondo prerequisito di questa rappresentazione è, per Bachtin, la comprensione che Dostoevskij ebbe della natura dialogica del pensiero umano:
“L’idea vive non nella coscienza individuale isolata dell’uomo: rimanendo in essa, essa degenera e muore. L’idea comincia a vivere, cioè a formarsi, a svilupparsi, a trovare e a rinnovare la sua espressione verbale, a generare nuove idee, solo entrando in rapporti dialogici con altre idee altrui. Il pensiero umano diventa vero pensiero, cioè idea, solo in condizioni di contatto vivo con un altro pensiero altrui”.
Solo se concepite in questo modo le idee possono assumere lo statuto di “fatti vivi”, in grado di essere rappresentati pienamente in un romanzo. Il pensiero è accostato al linguaggio, per natura dialogico – il monologo è quindi ammesso unicamente in quanto forma compositiva convenzionale, nata proprio dal monologismo ideologico tipico dell’epoca moderna.
Cosa significa raffigurare le idee come fatti vivi? Certamente non esporle in forma monologica, né mostrare il loro formarsi all’interno di una conoscenza individuale: “Dostoevskij nega categoricamente di essere uno psicologo”.
L’esempio portato da Bachtin è quello delle idee di Raskol’nikov. Esse emergono con forza nel corso di un monologo interiore, dopo l’incontro con Marmeladov e l’arrivo della lettera in cui la madre annuncia il fidanzamento di Dunja. Di fatto, nell’interiorità di Raskol’nikov si svolge un “monologo interiore dialogizzato” in cui si confrontano le voci di vari personaggi (la madre e la sorella, Marmeladov, Sonja), interlocutori assenti alle cui voci si sovrappone l’intonazione ironica o sdegnosa di Raskol’nikov stesso – è un esempio di “micro dialogo”, in cui ogni parola è “a due voci”, ogni singola parte del discorso è dialogizzata perché all’interno della coscienza del personaggio le parole altrui entrano in contatto senza filtri, con la massima intensità, con le proprie, fino a compenetrarsi: ed è per questo che “nei dialoghi di Dostoevskij si scontrano e disputano non due voci monologiche integre, ma due voci scisse”.
Altro esempio, l’articolo in cui Raskol’nikov esprime le sue idee in forma teorica e monologica. Non è un caso che al lettore non sia mai data la possibilità di leggere direttamente l’articolo: il suo contenuto viene invece reso noto attraverso il caleidoscopio di sguardi e interpretazioni che ha luogo nel corso dell’inchiesta di Porfirij. Quest’ultimo espone il contenuto dell’articolo in forma volutamente esagerata e provocatoria, interrotto dalle precisazioni e dalle domande di Raskol’nikov – al quale tocca poi replicare; a ciò si aggiungono le intromissioni di Razumichin e Zametov, e il risultato è che l’idea ci appare tesa “in una zona interindividuale” che le permette di rivelare varie sfumature di significato, varie possibilità di elaborazione, contraddittorie e poliedriche. Per ottenere un simile risultato, è necessario che l’idea perda l’astrattezza teorica che le sarebbe data da una forma monologica – sufficiente a un’unica coscienza isolata. Con Sonja, con Svidrigajlov, l’idea di Raskol’nikov entra similmente in contatto, rivelando ulteriori “facce”, e subendo un processo di messa in discussione, quasi di “sperimentazione sul campo”. E un procedimento simile si vede ne I fratelli Karamàzov con le idee di Ivan sull’immortalità, che nel corso del romanzo vengono discusse ed messe continuamente in contatto con altre idee e personalità, rivelando così il proprio potenziale: “nella pittura un determinato tono, grazie ai riflessi dei toni circostanti, perde la sua astratta purezza, ma proprio per questo comincia a vivere di vera vita pittorica”.
Insomma, la grande capacità di Dostoevskij fu non solo di cogliere le singole voci, ma di saper vedere e riprodurre i rapporti dialogici tra di esse. Le “voci-idee” create, viste o indovinate dallo scrittore riflettevano tanto il passato quanto, parzialmente, il futuro della sua contemporaneità – ed è possibile tentare di cercarne i prototipi: ad esempio le idee di Raskol’nikov hanno come modelli Napoleone III (Storia di Giulio Cesare) e Max Stirner (L’unico e le sue proprietà). Tali prototipi non vengono copiati o sviluppati, ma rielaborati liberamente e creativamente, esattamente nello stesso modo in cui nella creazione letteraria i prototipi umani vengono rielaborati e si trasformano nei personaggi. Dostoevskij non si limita infatti a riportare gli aspetti storicamente reali di un’idea, ma tenta di indagarne le possibilità e i limiti mettendola a contatto (sul campo del “grande dialogo” immaginario dei suoi romanzi) con le altre. Nella sfera della raffigurazione artistica, le idee divengono “immagini di idee assolutamente dialogizzate e monologicamente indefinite”, senza perdere il loro valore semantico, e anzi ampliandolo visto che esse sono poste (e concepite) sul confine tra varie coscienze.
Questo fatto emerge in modo particolarmente chiaro se si considera che le idee dello stesso Dostoevskij, del Dostoevskij pubblicista e pensatore, che si trovano espresse in forma monologica nei suoi articoli di giornale, si incontrano anche nei romanzi: nella dimensione della rappresentazione artistica, gli elementi politici, religiosi e filosofici del pensiero dell’autore cessano di essere affermati, per essere raffigurati nella loro relazione dialogica con altre idee. Liberate dalla determinatezza astratta dell’espressione monologica, anche le idee dello stesso Dostoevskij si confrontano con idee divergenti (o meglio, con le rappresentazioni di esse nel romanzo) su un piano di assoluta parità: “Dostoevskij-artista riporta sempre la vittoria su Dostoevskij-pubblicista”. Le idee di Dostoevskij, enunciate in forma monologica in ambiti esterni a quelli della creazione letteraria, nel contesto di quest’ultima si trasformano nelle idee-prototipi di alcuni personaggi: la funzione artistica delle idee nel romanzo polifonico si distingue nettamente dalla loro sostanza monologica.
III
Per comprendere pienamente le modalità di raffigurazione dell’idea in Dostoevskij non bisogna trascurare quello che fu uno dei caratteri fondamentali dell’ideologia dell’autore: l’assenza di “pensiero singolo” e di un “sistema di pensiero oggettualmente unitario” – caratteri sui quali solitamente si fonda il lavoro di un pensatore. Se si segue un approccio ideologico “normale”, cioè monologico, i pensieri, le tesi, le idee esistono e si congiungono a formare un sistema senza mai abbandonare un piano rigorosamente oggettuale: il sistema è fondato sui pensieri, ed essi tendono al sistema come fine ultimo. Dostoevskij non conosce né pensiero singolo né unità sistematica, in quanto per lui l’unità minima indivisibile (l’”atomo” del pensiero) non è il singolo giudizio oggettivamente vero o falso, bensì il punto di vista su di esso di una personalità individuale. A combinarsi non sono più i pensieri, ma i punti di vista, e quindi le voci, le differenti personalità dei personaggi: il risultato non è un sistema unitario e astratto, ma un lavoro continuo, travagliato e inesauribile di definizione delle idee, un pensiero “scissionale”.
Questa tendenza si riflette anche negli articoli pubblicistici di Dostoevskij, che seguono spesso una struttura compositiva ben precisa: il contenuto dell’articolo viene di volta in volta sviluppato dialogicamente – e non come astratto dialogo logico, ma attraverso un confronto tra voci veramente individualizzate. Dostoevskij “persino nei suoi articoli polemici […] non cerca di persuadere, ma organizza voci”, in modo a volte simile a quello in cui nei romanzi fa comparire le idee dei personaggi: “il suo pensiero si fa strada attraverso un labirinto di voci, di mezze voci, di parole e di gesti altrui. Egli non dimostra mai le sue tesi su un materiale di altre tesi astratte”.
Questa idea formativa non può emergere con la massima intensità negli articoli pubblicistici, vista la forma comunque monologica che il “genere” della scrittura giornalistica impone; eppure anche in quest’ambito rimane evidente che per Dostoevskij “pensare […] significa domandare e ascoltare”: non è pensabile un pensiero senza dialogo, e non è pensabile una rappresentazione del pensiero che non sia dialogica, e quindi polifonica(2). Questo si riflette anche nell’assenza di pensieri singoli nelle opere di quest’autore, nel fatto che in esse non si trovino aforismi, sentenze e digressioni in grado di mantenere pienamente il proprio significato anche al di fuori del contesto in cui l’autore li ha inseriti – mentre neoclassicismo e illuminismo hanno visto la piena affermazione di un pensiero aforistico, fatto di enunciati circoscritti e autosufficienti.
L’approccio ideologico di Dostoevskij gli permette di prendere in considerazione il mondo non come distesa di oggetti illuminati da un’unica coscienza monologica, bensì come mondo di coscienze che si illuminano a vicenda; tra di esse, l’autore cerca la più alta ed autorevole ma non la assume come suo reale pensiero, bensì la attribuisce al pensiero e alla parola di un altro uomo reale – un “uomo nell’uomo”. Il criterio ideologico più importante non è più la fedeltà alle proprie convinzioni dimostrate su un piano astratto, ma quella all’immagine dell’uomo. “Egli preferisce essere con l’errore, ma con Cristo, cioè senza verità nel senso teorico di questa parola, senza le verità-formule, le verità-tesi”, il che denota che in Dostoevskij è dialogico persino l’atteggiamento verso il suo modello ideale: egli non si fonde con esso, ma tenta di seguirne le orme. Il pensiero dell’autore entra nell’opera non per illuminarne e dominarne tutti i contenuti, ma come immagine di uomo, orientamento tra gli altri orientamenti. L’”idea dominante” non porta compiutezza, non trasforma il mondo in un sistema ordinato, non esce mai dalla lizza del “grande dialogo” in cui si mette alla prova con le altre idee. È la ragione per cui in Dostoevskij l’ambiente non viene mai rappresentato in modo oggettivo, ma solo attraverso la pluralità degli sguardi dei personaggi: l’autore rappresenta gli uomini, entra in contatto diretto solo con essi, mai con le cose, e raffigura i contatti interpersonali, non quelli tra le coscienze e le cose. Il mondo dei suoi romanzi è mondo di soggetti, non di oggetti.
(1)Il che ovviamente non vale per l’autore stesso, unico “ideologo” riconosciuto come valido nell’opera.
(2)e questa verità emerge nel modo più chiaro nei romanzi del “grande dialogo”, in cui effettivamente avviene un incontro/scontro diretto tra i pensieri di vari personaggi, anche nelle altre opere è possibile prendere atto di quanto dialogico sia qualunque discorso dostoevskiano. Tutti i personaggi “tipici” di quest’autore (il sognatore de Le notti bianche, Il sosia, Il giocatore, il “paradossista” delle Memorie del sottosuolo, il narratore de La mite, in qualche misura anche il viaggiatore che riporta le Note invernali su impressioni estive) vivono in bilico tra la propria parola su sé stessi e quella degli altri, tra l’elaborazione dei loro sogni e la mai avvenuta realizzazione: in sostanza, nell’interminabile, doloroso processo dell’affermazione dell’idea in una realtà che rimane, a dispetto di tutto, ostinatamente, ostilmente dialogica.

Bachtin M., Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino, 2002 (1968)
Bottiroli G., Che cos’è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, Einaudi, Torino, 2006