domenica 20 novembre 2011

Mesi-anni, 14 febbraio 2009

Il cielo rifletteva sulle cose anche a quei tempi
ma non me ne rendevo conto ancora
non c’era mai tempo, già, e se c’era
passava
come una sbronza.
Non avevo le corde e la faccia
Che adesso io ho, e non avevo,
non avevo maglioni distratti, né la patente,
in compenso dormivo, e ignoravo felice
che fare domani.
Son passati dei mesi
Come fossero anni.

sabato 19 novembre 2011

Dell’insediarsi, nella pubblica opinione e nell’immaginario collettivo, del governo Monti

Il freddo ha qualcosa di demoniaco. È da settimane ormai che l’autunno fa il suo mestiere con metodo e costanza, e ogni giorno e ogni notte il freddo si ripete. Ogni alba oramai vede i prati coperti di brina, e la foschia offusca lo sguardo del sole. La vita si fa gradualmente più sonnolenta, più nascosta, e il letargo si prende tutto. Le oche, stolide nel loro piumaggio che le rende impermeabili al gelo e all’umidore, hanno un unico problema: riempire lo stomaco. L’erba ha smesso di crescere, non esiste più frutta: l’unico cibo è quello che arriva, una volta al giorno, dalle mani di XYZ. I cui vecchi scarponi misurano il prato quotidianamente, lasciando tracce nella brina. C’è ancora qualche lavoretto, di tanto intanto, e pigramente XYZ porta a termine quel poco che rimane. Il freddo ha qualcosa di demoniaco, di deliberatamente ripetitivo, ma correre per il prato o portare carichi pesanti scalda più della stufa e dei cappotti foderati di pelliccia. Per questa ragione XYZ si sente singolarmente pieno di zelo, ben disposto allo sforzo, quando lavora, e dato che c’è anche molto tempo e poco da fare ci si può divertire, dando sfogo libero all’energia inutilizzata. E le stupide oche. XYZ avvista un bel cardo pieno di spine, che ovviamente quelle altre non hanno toccato. Il cardo è appiattito nell’erba fitta, geloso della sua vita rotonda e spinosa, non commestibile, ed è largo ormai una trentina di centimetri. XYZ lo considera. Solleva le foglie da un lato con la punta della scarpa; poi con due calci sinceri lo sradica. “Eccolo qua!” lo raccatta, con la cautela di non pungersi; lo lancia con grazia oltre al recinto delle sceme. Che ci si buttano: quando dall’alta nera figura di XYZ cade un qualsivoglia oggetto più grande di uno sputo, che sia mela marcia o gerla di avanzi e bucce rovesciata sull’erba, di norma è roba che si mangia. Ancora più preziosa, nei giorni in cui le uniche alternative sono le filiformi foglie d’erba ingrigite dalla noia di novembre o la razione quotidiana, scarsa, del solito grano. E così è la grassa, la più vecchia, ad avvicinarsi per prima al cardo divelto, oltraggiato. E ne prende una bella beccata, prima di accorgersi. Le altre si avvicinano, circondando curiose l’inutile coacervo di spine. Immasticabile. La vecchia grassa è fatta fessa e non vuole crederci. Osserva il cardo rovesciato mentre pian piano la sua fiducia svanisce, e tuttavia non vuole crederci. Muginando ancora la foglia che ha già strappato, irta di spine. Le altre restano immobili. Lei continua a esaminarlo.

domenica 6 novembre 2011

Febbraio 2008: ero davvero... come dire... ero davvero.

C’era una cascina, buttata lì in mezzo alla campagna. Era vecchia, alcuni dicevano di più di cent’anni. Era un casolare come tanti, mezzo diroccato, vicino alla Statale: nessuno se lo sarebbe mai comprato, nessuno sapeva che fine avessero fatto i vecchi proprietari. Ed ora da bravi ragazzacci di campagna (campagna, non periferia, campagna) andiamo a curiosare nell’edificio abbandonato… "Stoppa un attimo, i ragazzi di campagna da dove li hai presi?" Due balle così, mi devi fare… "I ragazzi normali staranno tutti a giocare alla Playstation, o a scuola…" ‘Fanculo! "E sentilo, ragazzi di campagna, e l’istruzione obbligatoria?" E va bene, va beh, facciamo che son dei giovani a spasso con la vespa, per i campi, ok? In giro in mezzo al niente, senza troppi perchè, senza stare a pensare all’università, o al lavoro. Passare una domenica pomeriggio tra amici, senza nessuno a rompere i coglioni, godersi la primavera che pare arriv… "Stronzate, tutte stronzate. Trovami tu uno che a quell’età non ha niente di meglio da fare che andarsene a spasso da nessuna parte. Con quel che costa la benzina, poi, e il precariato, già, senza nessuna preoccupazione…" E chi cazzo ci devo mandare, in ‘sto casolare benedetto, secondo te? Una masnada di quarantenni rampanti, in giacca e cravatta, tante belle automobili. Non sono degli stra-ricchi, sono dei ricchi-e-basta, ed hanno capito il giro: si mettono tutti assieme e fanno l’acquisto in cooperativa, terreno incluso, glie ne fa un baffo dei prezzi degli immobili, ne pagano un po’ a testa, poi pigliano, ristrutturano e ci fanno l’alberghetto! La Statale lì accanto? Chissenefrega, ci mettono un filare di cipressi e non si vede più. Tiè, il mio casolare sperduto nella campagna è diventato un agriturismo per inglesi, crucchi e americani pieni di soldi. Hanno messo pure una piscina, e poi il ristorantino e la sala giochi, contento? Ora nella vecchia cascina ci passano tante belle famigliole, ci son parcheggiate davanti tante belle automobili, ci son su internet tante belle foto, nei siti delle agenzie di viaggi… tanta pubblicità, tanti soldi che girano, e due o tre contadini che si rivoltano nella tomba. Ma è così che va il mondo, dopotutto, no?

venerdì 4 novembre 2011

28/10/2008

La città stasera è una rabbia, radunata sotto la pioggia,
pugni chiusi e voci in coro;
la periferia un’ansia muta,
una calma di zenzero,
fa freddo, sempre più freddo.

Per i corsi lastricati, di fronte ai portici,
passano voci, striscioni, musica forte,
l’eco arriva lontano, la pioggia continua
sul fiume distante, gelido e nero,
fa freddo, sempre più freddo;

Si salta, si grida, le auto si fermano
la musica cessa e adesso si suda, un megafono
tossisce qualcosa, e riparte il corteo,
da lì in mezzo al freddo
un fiume che scotta.

giovedì 3 novembre 2011

La fine del Nano

Il Nano, quel nano maledetto.
Ricopriva la carica di Primo Consigliere del re e, vista la completa imbecillità del suo diretto (e unico) superiore, era di gran lunga l’uomo più potente all’interno delle istituzioni. Lo sapevano tutti, lo si sapeva bene, che in realtà i complessissimi ingranaggi della Nazione e della Società erano mossi da ben altri oscuri personaggi. Ma il Nano rimaneva influente. Era un simbolo, ma di natura diversa dal re. Il re era come un vecchio gonfalone appeso in una sala di palazzo; certo, aveva uno stuolo di maggiordomi incaricati di tenere alla larga tarme, ragnatele e paparazzi, ma la sua utilità e il suo potere erano del tutto trascurabili. Era solo il simbolo di una cosa morta, di una grandezza passata e irrecuperabile, incensata nei vocabolari araldici ma dimenticata dal mondo e dalle cose: ormai tagliata fuori dal flusso delle cause e delle concause da cui si genera “il ritmo strano della vita”. E invece il Nano era simbolo della “grandezza” presente, cioè della miserabile capacità di ricavare la maggiore ricchezza con il minore sforzo possibile. Con tutti i mezzi, ovviamente: non esiste legalità o morale che tenga quando l’unica cosa sacra è il porco denaro. Che può anche essere lurido, ma non puzza mai. Il nano pervenne al suo ruolo per vie impreviste, impervie ed ignorate, facendo il parassita, impossessandosi di ruoli sempre meno trascurabili, nutrendo piccole clientele fino a fondare un suo personale potentato. La sua figura compatta, grassottella e tappa (non era un vero nano, era solo bassino), il suo cognome alacre e borghese tipico della città più alacre e borghese della nazione, sembravano fatti apposta per permettergli di sgusciare indenne dagli intrighi di corte; e ora si poteva immaginarlo a zompare in libertà tra diplomatici e presidenti stranieri, collezionando figuracce infami. Era davvero odioso, un simbolo odioso di un potere pervertito – e “non esistono poteri buoni”, figurarsi un potere talmente corrotto da intralciarsi da solo, con un simile indegno approfittatore al suo vertice: una vera schifezza.

Ora, S. F. era un ragazzo taciturno.
Tendente alla solitudine, quasi sempre serio, leggeva parecchio e pensava di più. E parlava quasi niente, ma ciononostante a tutti noi era sempre sembrato un tipo a posto. Non avevamo davvero idea di cosa sarebbe successo.
Lo conoscevamo poco – difficile poter dire di conoscerlo d’altronde – ma probabilmente eravamo le persone con le quali aveva maggiore confidenza. Sì, ci vedevamo a lavoro. Ogni tanto, nel parlare, si lasciava andare a un sorriso dolorante, vacuo, ma quasi mai rispondeva alle battute. Nessuno lo sfotteva però, aveva l’aria troppo triste, e poi siamo sempre stati persone serie anche noi altri. Faceva il suo lavoro con perizia e precisione, impuntandosi talvolta con insistenza su qualche particolare trascurabile, ma sempre con discrezione, e senza mai causare problemi.
E, insomma , quando iniziò a frequentare il poligono di tiro non lo raccontò a nessuno. Sì, si iscrisse a una di quelle… sezioni del tiro a segno nazionale, ecco. A noi non importava nulla, figurarsi, poteva anche dircelo. Insomma, si sbattè per prendere una licenza di porto d’armi per uso sportivo. Me lo immagino, a caricare la pistola e prendere la mira tutto preciso, intento, in mezzo ai fanatici del tiro al piattello e ai rudi pistoleri di provincia coi loro abiti paramilitari. Probabilmente furono duri con lui, per le sue braccia magre e i suoi vestiti usati da fratellino minore. Non so quanto tempo ci mise, a conquistarsi il rispetto degli energumeni, ma di certo diventò un discreto tiratore.
Poi cominciò ad andare ai comizi. Un paio di volte anche fino alla capitale. E sospetto che qualche volta si assentò pure da lavoro, per fare ‘ste trasferte. E iniziò a seguire i politici, i ministri. Anche il Nano. A chiedere l’autografo. Qualche idiota c’era sempre, a fare cose del genere: i fan sfegatati del Governo. Mezzi maniaci. E S. F. si mischiò con quella gente: gli uomini delle scorte, i gorilla, presero a riconoscerlo, a parlarci. Credo lo trattassero come un demente, me li immagino a ridacchiare dopo che lui aveva salutato estasiato il ladrone di turno. Ottenne pian piano la loro fiducia, di sicuro, probabilmente perché nessuno di loro lo guardò mai negli occhi. Io invece a volte lo facevo.

Fu a un grande comizio, come ce n’è tanti. Un comizio del Nano nella sua città natale. S. F. c’era.
S. F. si era abituato ad andare ai comizi con la pistola sotto il braccio, in una fondina nascosta che si era comprato in qualche negozio da sbirri di quelli che aveva iniziato a frequentare da quando andava al poligono. E mentre porgeva la mano a un ministro o a un consigliere o a un segretario, mentre ammiccava entusiasta alle guardie giurate della scorta, beh, aveva quell’acciaio freddo sotto l’ascella. Ci si era abituato, in preparazione di quella fatidica volta; per qualche ragione scelse proprio quella, e di occasioni ce n’erano state decine: credo che S. F. avesse bisogno di abituarsi all’idea, di filmare venti volte la scena nella sua testa, prima di girarla una volta per tutte.
Il comizio: le solite bugie, i ministri cafoni, l’orchestra frustrata, le ballerine, la gente in festa (quanti stipendiati?), e la polizia a controllare lo scorrere liscio dello spettacolo. Uomini in borghese, cecchini sui tetti, facce cordiali di grassi poliziotti appoggiati alle moto. Nel casino S. F. corse verso il Nano, dopo la fine dello show, aspettando che, come altre volte, il Primo Consigliere lo riconoscesse in mezzo alla folla di facce instupidite dall’applauso, dalle luci, dal caos. S. F. sapeva cosa fare. Qualche fotografo inquadrò l’ultimo sorriso bonario, falso e consapevole del Nano, l’ultimo atto della sua recita. Nell’istante in cui il suo sguardo contento e luccicante incrociò quello di S. F., oltre le transenne, il cannone era già puntato: una vecchia Parabellum raccattata chissà dove, troppo grande, troppo pesante in cima a quel debole braccio avvolto da un impermeabile frusto. Sei colpi sparati a distanza ravvicinata trasformarono il glorificato glorioso Nano in un cupo ammasso sanguinante, accartocciato tra le gambe sprovvedute dei gorilla armati fino ai denti.
La mente di S. F. si svuotò. Ebbene, quello era il momento atteso da mesi. Distruggere un simbolo, distruggere il Simbolo, ecco cosa voleva. Non gli importava di uccidere una persona, non gli importava della teatralità, della galera. Già, finire in una cella. Gli avrebbero dato l’infermità mentale, o lo avrebbero intervistato? Lo avrebbero, in via del tutto eccezionale, giustiziato? O avrebbe scritto un libro, nelle lunghe veglie dell’ergastolo? Il paese sarebbe andato avanti, non c’era da pensare che il Nano contasse così tanto, non avrebbero applicato la legge marziale… Quello che per S. F. era importante era la morte del simbolo. Era far tremate tutti coloro che a quel simbolo guardavano come un modello, tutti quelli in doppio petto, coi portafogli pieni e la grossa macchina nera, a sgambettare tra politica e alta finanza in cerca di non si sa che cosa, accumulando capitale e potere. La gente che aveva trascinato il Paese nel fango, ecco cosa pensava S. F., viaggiando per la sua città e vedendo crollare pian piano tutto ciò che gli era sembrato renderla degna di essere abitata e vissuta. Solo un evento come la morte del Nano, dell’uomo più solido del Paese, avrebbe potuto smuovere il torbido in cui tutti vivevano, far tremare i colossi di marmo – ridicoli, patetici colossi che arrivavano al metro e settanta grazie ai tacchi dei mocassini di marca – da cui tutto, ogni vita, dipendeva.
Questo aveva pensato S. F., nei lunghi mesi in cui imparava a sorridere di fronte ai suoi tiranni, e a premere il grilletto nel momento giusto e a non cedere al rinculo. E quando finalmente il caricatore fu svuotato, e il Nano ormai inerme sparì nella coltre difensiva e nera della scorta, in un frapporsi di elegantissimi gorilla, S. F. poté non pensare a nulla. Il Nano era sempre senza giubbotto antiproiettile, era uno dei suoi vanti e, una volta tanto, era anche verità. Già, questo fu l’ultimo pensiero di S. F.
La scorta personale del nano era pesantemente armata, ed erano sul luogo anche parecchi agenti delle forze di sicurezza. Di preciso non si è mai saputo chi fu a sparare; probabilmente fu fatto d’impeto, senza pensare che tanto la pistola dell’attentatore era rimasta senza munizioni, e che una volta eliminato il bersaglio era rimasto ben poco da temere; le guardie erano tutte bene addestrate, il colpo fu preciso e fatale. S. F. sentì solo più un calore immenso, improbabile, tanto forte da coprire qualsiasi dolore. Poi qualcuno spense la luce.