lunedì 22 novembre 2010

20-11-10

Oltre il guardrail
Potevo vedere
Le bracciate immense degli alberi
Che attraversavano a nuoto
La nebbia
E l’alba, uno spettro
Indeciso.
Ma adesso che il sole è tanto forte
Che mi ci posso appoggiare, come a un muro
Mentre aspetto
Non mi sembra sia il caso
Di averne nostalgia.

mercoledì 17 novembre 2010

Frammento 3: 14-10-10

Ero seduto su una panchina
E ti ho vista cercare
Tra le foglie morte
Nel vento
Gocce di sole.
Ti ho vista leggere, cambiare
Non ti ho saputo parlare.

Ritratto II: Alonso Chisciano

Ha cinquant’anni esatti, in gioventù
Ha ereditato un patrimonio modesto –forse troppo modesto
Che gli permette di vivere
Leggendo romanzi.
Lo credono matto
Perché spera, per strada
Di conoscere Gonzalo
Pirobutirro, Metello
Salani o la signora
Emma Bovary;
e invece incontra solo Sancho
e si sbronzano insieme
di sogni e di vino.

domenica 14 novembre 2010

Latta

Non molto lontano di qui c’è una città tutta fatta di latta. Le strade, i campi, gli alberi e i palazzi hanno la rigidità grigia della lamiera, il paesaggio appare come un insieme caotico di linee diritte, parallele o perpendicolari, dai colori monotoni: una serie infinita di rettangoli e quadrati pressoché indistinguibili. Non che tutto questo sia costruito nel nome della praticità, o di una essenzialità rivolta al bello; anzi pare quasi sciatteria: un qualcosa che sia stato creato distrattamente, senza inventiva ma anche senza un fine, un piano in grado di portare ordine e coesione. E in questo paese di latta gli uomini pure sono di latta. Mi spiego: sono uomini normali, hanno mogli e case e figli e cani; ogni mattina si alzano, si lavano, si fanno la barba, bevono il caffè; lavorano, chi più chi meno, proprio come se fossero di carne vera. E crescono e invecchiano, perdono poco per volta i sogni e i capelli (impalpabili fili rigidi e grigi, che appena cadono vengono spazzati via da un vento che si direbbe pure metallico); e parlano poi, con voci forse un po’ troppo stentoree ma quasi indistinguibili dalle nostre: pronunciano frasi solite, trite e ritrite: la loro lingua, come i loro pensieri e la loro anima, è priva di vera vita, non fa che ripetere meccanicamente azioni e parole già viste, regolate come da ingranaggi. E i loro atti e le loro scelte sono come i paesaggi del loro paese: rigidi e artificiali senza essere ordinati: come la materia che li costituisce, dura e malleabile, fredda e priva di vita ma capace di tagliare come un coltello, se spezzata.
Ora immagina un essere umano normale, come te, lettore o lettrice, che per avventura finisca a vivere in questa contrada di latta: cosa in verità per niente inverosimile, poiché per quanto strano possa sembrare i confini di questo paese sono labili e indistinti, e come ho già detto non lontani da qui. Insomma, immaginiamo un uomo qualunque che inconsapevolmente si trasferisca in mezzo agli uomini di latta; probabilmente non farà fatica ad accorgersi dell’errore: insomma, dopo aver trovato un alloggio e un lavoro, si guarderà un po’ intorno, cercherà delle amicizie e magari degli amori; come è solito e normale, manco a dirlo; ma alle sue parole risponderà solo il suono sordo della latta. Gli uomini e le donne di latta sono capacissimi di relazionarsi tra loro, ma solo tra loro: i loro rapporti si svolgono entro rigide regole di tipo prettamente meccanico, che vanno imparate nel dettaglio e applicate se si vuole stabilire una qualsiasi comunicazione; una macchina non è in grado di reagire se riceve l’input sbagliato, e tentare di avvicinarsi con approcci insoliti darà vita solo a urti, rumore e banali ammaccature. L’Uomo di carne sperduto in mezzo agli uomini di latta si troverà dunque di fronte a un bivio: mollare tutto e scappare via, tornandosene da dove era venuto, oppure restare. E di nuovo, questa seconda ipotesi non è tanto inverosimile quanto a prima vista può sembrare: gli uomini di latta seppur privi di quel che sia chiama umanità non sono certo aggressivi, nemmeno minacciosi; fanno addirittura un po’ pena nella loro mediocre prevedibilità; e il nostro Uomo che ha tanto faticato a trovarsi una sistemazione in questo posto, dovrebbe subito rinunciare a sfruttarla almeno per un po’? fuggire come un perseguitato da questi innocui bambocci metallici, coi quali in fondo basta essere educati per non avere guai (nessuno dei guai che è fin troppo facile incontrare camminando tra uomini di carne, dotati di passioni)?
Insomma, Uomo molto ragionevolmente decide di fermarsi a vivere qui, almeno per un po’. All’inizio di certo è molto difficile: non ci si può lasciare andare, con queste macchine; non si può essere del tutto sinceri, perché gli argomenti estranei ai loro meccanismi sono sistematicamente fraintesi o ignorati; ogni comunicazione diventa addirittura artificiosa, completamente determinata e irrigidita dal codice. Le sere invernali (era infatti quasi capodanno quando il nostro si è trovato impiego e casa qui) Uomo le trascorre a spasso per strade monotone e grigie, scandite a intervalli regolari dai coni di luce dei lampioni. Un’angoscia irresistibile lo prende, al pensiero del vuoto che ovunque lo circonda, delle marionette e maschere che occupano tutto lo spazio intorno a lui, senza via di scampo. Ma è impossibile per chiunque vivere a lungo in preda a un simile sentimento: o se ne fugge la causa, o è l’angoscia a fuggire misteriosamente dalla nostra anima; e questo credo sia il maggiore dei poteri dell’abitudine. Uomo gradualmente si abitua: stringe la mano e sorride, e la stretta e la forma delle sue labbra imparano a mimare, a imitare nel dettaglio i gesti degli uomini di latta; all’inizio nemmeno se ne accorge, poi se ne stupisce, poi ci prova gusto: è come un gioco, una partita a scacchi, qualunque frase o azione determina automaticamente una gamma di risposte; come una danza complessa ma vacua, con un che di affascinante. Ormai si è in marzo, i giorni si allungano ma sembrano passare più rapidi; Uomo conosce ormai molti uomini di latta, e pur sapendo che non per questo è meno solo, non si sente più come ai primi tempi; le settimane adesso si accavallano, la primavera e l’estate si sovrappongono, è sorprendente la velocità con cui il tempo sa scorrere su una vita sedentaria, e sorprendente è l’erosione che la superficie glabra di una tale vita più riportarne; il sorriso di Uomo è ormai quello di un uomo di latta anche quando incontra, di rado, qualche vecchio amico; e a fatica il nostro eroe se ne accorge, e si corregge, mentre i suoi compagni cercano di decifrare la bizzarra, nuova inespressività del suo volto.
Come niente arriva agosto; Uomo non va in vacanza, quest’anno stranamente non ne ha voglia –pur amando viaggiare, di solito; rimane in mezzo agli uomini di latta, a lavorare pigramente (non esiste mestiere, in questa terra, che non sia monotono; e perlopiù non si trovano lavori che rendano gli uomini esausti nel corpo, bensì nella mente: torpore e non fatica, non vera stanchezza) e a scacciare le zanzare (pure esse metalliche, ci credete?); ma non si annoia neanche più, ci ha fatto davvero l’abitudine; addirittura, prova una sorta di autocompiacimento divertito nell’andare al bar, divertirsi un po’ con i suoi coetanei di latta, seguire il filo prevedibile di ogni loro pensiero o discussione. Se la primavera è passata in fretta, l’autunno scorre velocità folle; all’inizio di dicembre il dilemma di Uomo torna: è ormai quasi un anno che vivo qui, che fare? non mi sento stanco di questo luogo, qui non soffro, eppure...Uomo non se lo sa spiegare; sente forse un vuoto grigio, una sensazione indefinibile ma costante, come il vago sapore di ruggine di certe vecchie posate; sintomo di chissà che cosa. Infine, decide di non muoversi almeno per qualche mese: la situazione stabile e monotona che si è venuta a creare gli permette almeno di pensare tranquillamente e non fare errori.
Finchè una mattina, poco dopo capodanno, Uomo come ogni giorno si alza, si lava, si rade, beve il caffè, va a lavorare, e tornato a casa la sera si scopre ormai di latta.

martedì 9 novembre 2010

Ritratto I: Stanislao Brumapotny, compositore

Osservatelo.
Osservate il compositore Stanislao Brumapotny a passeggio per Via Po.
Sulla sessantina, abiti trasandati, baffi cespugliosi, un sottile odore d’aglio lo circonda. Rivolge ai passanti e alle bancarelle e alle vetrine un’espressione tra l’ostile e l’indifferente e il sonnolento.
Non cammina sotto i portici, bensì sul marciapiede adiacente alla strada: “per evitare i seccatori” cogita.
E quando lo specchietto di un autobus privato gli sfiora i capelli biascica –in perfetto italiano- una vergognosa bestemmia, rivolto all’autista: che gli sorride, come per farsi perdonare.

Con gesti di una certa signorilità
Sta mangiando una qualche porcata
Comprata per due euro
In rosticceria:
la tiene ben discosta dal corpo, attento
a non imbrattarsi la manica o le scarpe.

Quando organizza una prova
Coi suoi musicisti, evento raro
Conta i presenti (manca un clarino, il violinista
Oggi non poteva, dov’è l’euphonium?)
Depone le parti
Su leggio grande
Apre la prima bottiglia di birra:
in sala si chiacchiera, qualcuno
ha della sljivovica; tra sigari e poker
per un’oretta sono note sparse,
i pentagrammi riposano
sul loro leggio.
Ancora un’ora
E si va a casa.

Stanislao abita da qualche parte
Tra Mappano e Torino (le sue misere rendite
Non gli permettono di meglio) e lo potrete vedere
Aspettare la corriera reggendo
La strana custodia di qualche strumento
Che solo lui sa suonare.