domenica 26 dicembre 2010

Ritratto V: Ragazza in tram

Una volta ho preso il tram;
era settembre, cadeva una pioggia gentile;
c’era una ragazza col giubbotto di pelle, i capelli biondi corti un po’ tinti di rosso;
il mio giubbotto non era di pelle, lo era bensì la custodia del basso;
io le ho sorriso, non so bene perché;
stavo ascoltando “So What”, è un pezzo di Miles Davis, chi l’ha sentito
credo possa capire
che sorridere veniva naturale;
ma credo che il significato del sorriso fosse anche
“sei una bella ragazza, mi piaci”;
lei se n’è accorta, e lei pure ha sorriso;
un sorriso impalpabile, minimo, appena accennato, ma un sorriso pur sempre;
poi sono sceso, mentre il tram era fermo la potevo ancora vedere, dal finestrino:
e l’ho ancora guardata e ho sorriso
e lei pure, e adesso per davvero –cioè, un sorriso vero, coi denti;
E mi ha guardato curiosa
Come non capisse
Ma sorrideva.

sabato 25 dicembre 2010

Volti (18-12-10)

Mi sono stancato del vuoto, del rum, del freddo, del sonno
Degli accordi sfasati
Di facce e impressioni
Che mi seguono ovunque.
E dei tuoi occhi feroci
E di non sapere chi sei.
Mi sono stancato dell’immondizia e del fuoco, degli scudi della celere
E dei volti estenuati
Che vedo ogni giorno.
Già, mi sono stancato dei volti
Sono ingannevoli
Vorrei vederli di dentro.

venerdì 17 dicembre 2010

17-12-10

Porta Palazzo
Scolpita nell’aria
Mi guarda passare, è distratta
Dal freddo e dai pazzi
Che si litigano i sedili dei tram.

mercoledì 15 dicembre 2010

Ritratto IV: Ignoto

Rastrella foglie secche nel parco
Di un grande villa.
(Il prato, in leggero declivio
È esposto a nord: la mattina presto
Il sole è lontano, invisibile
La brina non si scioglie,se non quel tanto che basta
Per entrare negli stivali
Crepati.)
È alto, negro
Non porta guanti
E le mani, nel freddo
Sembrano fatte di legno.
Non aveva mai visto
Un simile gelo: il fango
In cui ieri
La sua carriola affondava
Adesso è una crosta cattiva, granitica
E le foglie si attaccano all’erba
Ghiacciate.
No, non si è ancora abituato al gelo
Né alla lingua
Né alla birra cattiva, né ai soldi
Che forse, forse arriveranno domani.
E rastrella le foglie, raccoglie mucchi alti un metro
Lentamente
E ogni volta che il rastrello
Scatta avanti e ritorna
Lui lascia cadere di tasca
Una bestemmia.

domenica 5 dicembre 2010

Ritratto III: Amedeo Antonelli, ragazzo perbene

Antonelli Amedeo
Sfreccia
Giù per la collina
Sulla sua pulitissima
Macchina nuova
Diretto all’ateneo
Dove seguirà lezioni
Indubbiamente utili
Per la sua futura
Remunerativa
Professione.
Elegante al punto giusto, mai stato volgare
Ha modi amichevoli, stringe mani, saluta, ricorda i nomi tutti
Adora primeggiare
Nello sport, negli svaghi, ma anche nella scuola
Perché è un ragazzo perbene
Serio
Ma simpatico, adatto alla vita.
Porta sempre con sé, insomma
Il suo senso del dovere
E il suo sorriso impeccabile.
Sorriso impeccabile
Che diviene un po’ meno impeccabile
Nell’istante in cui
-a causa di qualche fatalità deplorevole, ignota -
La perfetta automobile abbandona la strada
Preferendo il fiume, che scorre assorto
Venti metri più giù;
E il sorriso del nostro –si può dire– eroe
Urtando il volante
Si frammenta in trenta
denti
Sparpagliati.

giovedì 2 dicembre 2010

Catechesi del cesso

È successa una roba che mi ha messo addosso una fifa micidiale.
Ero in uno schifoso cesso
In uno dei palazzi più grigi e schifosi
Di una città bellina
Ma assai dotata, come quasi tutte, di schifo e grigio e malinconia
(e questa è solo la premessa);
Ho alzato lo sguardo
Sulla parete di fronte
Proprio sopra il pulsante
dello sciacquone
Qualcuno aveva scritto
TROVA DIO PRIMA CHE LUI TROVI TE.
Sarei fuggito all’istante
Al pensiero di Yahweh, dio degli eserciti
Armato della cattiveria del suo popolo
E delle sue dieci piaghe;
E del Dio cattolico
E della sua ipocrisia dalle cento teste, delle sue ricchezze sfolgoranti;
E di quello luterano, il Capitale
Del tremendo odore di benzina del suo sangue
E del suo ventre metallico riempito di interessi
E di cambiali.
Sarei fuggito all’istante
Ma dovevo pisciare.

Questo componimento è dedicato a G. de Cesare.

lunedì 22 novembre 2010

20-11-10

Oltre il guardrail
Potevo vedere
Le bracciate immense degli alberi
Che attraversavano a nuoto
La nebbia
E l’alba, uno spettro
Indeciso.
Ma adesso che il sole è tanto forte
Che mi ci posso appoggiare, come a un muro
Mentre aspetto
Non mi sembra sia il caso
Di averne nostalgia.

mercoledì 17 novembre 2010

Frammento 3: 14-10-10

Ero seduto su una panchina
E ti ho vista cercare
Tra le foglie morte
Nel vento
Gocce di sole.
Ti ho vista leggere, cambiare
Non ti ho saputo parlare.

Ritratto II: Alonso Chisciano

Ha cinquant’anni esatti, in gioventù
Ha ereditato un patrimonio modesto –forse troppo modesto
Che gli permette di vivere
Leggendo romanzi.
Lo credono matto
Perché spera, per strada
Di conoscere Gonzalo
Pirobutirro, Metello
Salani o la signora
Emma Bovary;
e invece incontra solo Sancho
e si sbronzano insieme
di sogni e di vino.

domenica 14 novembre 2010

Latta

Non molto lontano di qui c’è una città tutta fatta di latta. Le strade, i campi, gli alberi e i palazzi hanno la rigidità grigia della lamiera, il paesaggio appare come un insieme caotico di linee diritte, parallele o perpendicolari, dai colori monotoni: una serie infinita di rettangoli e quadrati pressoché indistinguibili. Non che tutto questo sia costruito nel nome della praticità, o di una essenzialità rivolta al bello; anzi pare quasi sciatteria: un qualcosa che sia stato creato distrattamente, senza inventiva ma anche senza un fine, un piano in grado di portare ordine e coesione. E in questo paese di latta gli uomini pure sono di latta. Mi spiego: sono uomini normali, hanno mogli e case e figli e cani; ogni mattina si alzano, si lavano, si fanno la barba, bevono il caffè; lavorano, chi più chi meno, proprio come se fossero di carne vera. E crescono e invecchiano, perdono poco per volta i sogni e i capelli (impalpabili fili rigidi e grigi, che appena cadono vengono spazzati via da un vento che si direbbe pure metallico); e parlano poi, con voci forse un po’ troppo stentoree ma quasi indistinguibili dalle nostre: pronunciano frasi solite, trite e ritrite: la loro lingua, come i loro pensieri e la loro anima, è priva di vera vita, non fa che ripetere meccanicamente azioni e parole già viste, regolate come da ingranaggi. E i loro atti e le loro scelte sono come i paesaggi del loro paese: rigidi e artificiali senza essere ordinati: come la materia che li costituisce, dura e malleabile, fredda e priva di vita ma capace di tagliare come un coltello, se spezzata.
Ora immagina un essere umano normale, come te, lettore o lettrice, che per avventura finisca a vivere in questa contrada di latta: cosa in verità per niente inverosimile, poiché per quanto strano possa sembrare i confini di questo paese sono labili e indistinti, e come ho già detto non lontani da qui. Insomma, immaginiamo un uomo qualunque che inconsapevolmente si trasferisca in mezzo agli uomini di latta; probabilmente non farà fatica ad accorgersi dell’errore: insomma, dopo aver trovato un alloggio e un lavoro, si guarderà un po’ intorno, cercherà delle amicizie e magari degli amori; come è solito e normale, manco a dirlo; ma alle sue parole risponderà solo il suono sordo della latta. Gli uomini e le donne di latta sono capacissimi di relazionarsi tra loro, ma solo tra loro: i loro rapporti si svolgono entro rigide regole di tipo prettamente meccanico, che vanno imparate nel dettaglio e applicate se si vuole stabilire una qualsiasi comunicazione; una macchina non è in grado di reagire se riceve l’input sbagliato, e tentare di avvicinarsi con approcci insoliti darà vita solo a urti, rumore e banali ammaccature. L’Uomo di carne sperduto in mezzo agli uomini di latta si troverà dunque di fronte a un bivio: mollare tutto e scappare via, tornandosene da dove era venuto, oppure restare. E di nuovo, questa seconda ipotesi non è tanto inverosimile quanto a prima vista può sembrare: gli uomini di latta seppur privi di quel che sia chiama umanità non sono certo aggressivi, nemmeno minacciosi; fanno addirittura un po’ pena nella loro mediocre prevedibilità; e il nostro Uomo che ha tanto faticato a trovarsi una sistemazione in questo posto, dovrebbe subito rinunciare a sfruttarla almeno per un po’? fuggire come un perseguitato da questi innocui bambocci metallici, coi quali in fondo basta essere educati per non avere guai (nessuno dei guai che è fin troppo facile incontrare camminando tra uomini di carne, dotati di passioni)?
Insomma, Uomo molto ragionevolmente decide di fermarsi a vivere qui, almeno per un po’. All’inizio di certo è molto difficile: non ci si può lasciare andare, con queste macchine; non si può essere del tutto sinceri, perché gli argomenti estranei ai loro meccanismi sono sistematicamente fraintesi o ignorati; ogni comunicazione diventa addirittura artificiosa, completamente determinata e irrigidita dal codice. Le sere invernali (era infatti quasi capodanno quando il nostro si è trovato impiego e casa qui) Uomo le trascorre a spasso per strade monotone e grigie, scandite a intervalli regolari dai coni di luce dei lampioni. Un’angoscia irresistibile lo prende, al pensiero del vuoto che ovunque lo circonda, delle marionette e maschere che occupano tutto lo spazio intorno a lui, senza via di scampo. Ma è impossibile per chiunque vivere a lungo in preda a un simile sentimento: o se ne fugge la causa, o è l’angoscia a fuggire misteriosamente dalla nostra anima; e questo credo sia il maggiore dei poteri dell’abitudine. Uomo gradualmente si abitua: stringe la mano e sorride, e la stretta e la forma delle sue labbra imparano a mimare, a imitare nel dettaglio i gesti degli uomini di latta; all’inizio nemmeno se ne accorge, poi se ne stupisce, poi ci prova gusto: è come un gioco, una partita a scacchi, qualunque frase o azione determina automaticamente una gamma di risposte; come una danza complessa ma vacua, con un che di affascinante. Ormai si è in marzo, i giorni si allungano ma sembrano passare più rapidi; Uomo conosce ormai molti uomini di latta, e pur sapendo che non per questo è meno solo, non si sente più come ai primi tempi; le settimane adesso si accavallano, la primavera e l’estate si sovrappongono, è sorprendente la velocità con cui il tempo sa scorrere su una vita sedentaria, e sorprendente è l’erosione che la superficie glabra di una tale vita più riportarne; il sorriso di Uomo è ormai quello di un uomo di latta anche quando incontra, di rado, qualche vecchio amico; e a fatica il nostro eroe se ne accorge, e si corregge, mentre i suoi compagni cercano di decifrare la bizzarra, nuova inespressività del suo volto.
Come niente arriva agosto; Uomo non va in vacanza, quest’anno stranamente non ne ha voglia –pur amando viaggiare, di solito; rimane in mezzo agli uomini di latta, a lavorare pigramente (non esiste mestiere, in questa terra, che non sia monotono; e perlopiù non si trovano lavori che rendano gli uomini esausti nel corpo, bensì nella mente: torpore e non fatica, non vera stanchezza) e a scacciare le zanzare (pure esse metalliche, ci credete?); ma non si annoia neanche più, ci ha fatto davvero l’abitudine; addirittura, prova una sorta di autocompiacimento divertito nell’andare al bar, divertirsi un po’ con i suoi coetanei di latta, seguire il filo prevedibile di ogni loro pensiero o discussione. Se la primavera è passata in fretta, l’autunno scorre velocità folle; all’inizio di dicembre il dilemma di Uomo torna: è ormai quasi un anno che vivo qui, che fare? non mi sento stanco di questo luogo, qui non soffro, eppure...Uomo non se lo sa spiegare; sente forse un vuoto grigio, una sensazione indefinibile ma costante, come il vago sapore di ruggine di certe vecchie posate; sintomo di chissà che cosa. Infine, decide di non muoversi almeno per qualche mese: la situazione stabile e monotona che si è venuta a creare gli permette almeno di pensare tranquillamente e non fare errori.
Finchè una mattina, poco dopo capodanno, Uomo come ogni giorno si alza, si lava, si rade, beve il caffè, va a lavorare, e tornato a casa la sera si scopre ormai di latta.

martedì 9 novembre 2010

Ritratto I: Stanislao Brumapotny, compositore

Osservatelo.
Osservate il compositore Stanislao Brumapotny a passeggio per Via Po.
Sulla sessantina, abiti trasandati, baffi cespugliosi, un sottile odore d’aglio lo circonda. Rivolge ai passanti e alle bancarelle e alle vetrine un’espressione tra l’ostile e l’indifferente e il sonnolento.
Non cammina sotto i portici, bensì sul marciapiede adiacente alla strada: “per evitare i seccatori” cogita.
E quando lo specchietto di un autobus privato gli sfiora i capelli biascica –in perfetto italiano- una vergognosa bestemmia, rivolto all’autista: che gli sorride, come per farsi perdonare.

Con gesti di una certa signorilità
Sta mangiando una qualche porcata
Comprata per due euro
In rosticceria:
la tiene ben discosta dal corpo, attento
a non imbrattarsi la manica o le scarpe.

Quando organizza una prova
Coi suoi musicisti, evento raro
Conta i presenti (manca un clarino, il violinista
Oggi non poteva, dov’è l’euphonium?)
Depone le parti
Su leggio grande
Apre la prima bottiglia di birra:
in sala si chiacchiera, qualcuno
ha della sljivovica; tra sigari e poker
per un’oretta sono note sparse,
i pentagrammi riposano
sul loro leggio.
Ancora un’ora
E si va a casa.

Stanislao abita da qualche parte
Tra Mappano e Torino (le sue misere rendite
Non gli permettono di meglio) e lo potrete vedere
Aspettare la corriera reggendo
La strana custodia di qualche strumento
Che solo lui sa suonare.

giovedì 28 ottobre 2010

Frammento 992: Poesia Inservibile

Questa poesia è inutile
Cioè, questa poesia qui
Non serve a niente.
Non mi metterà in tasca un solo euro
Non mi avvicinerà di un millimetro
Alle cime degli alberi
E non mi permetterà nulla
Che io già non possa.
Questa poesia non si può bere, non si può mangiare
Non ti dona emozioni travolgenti
Non ti insegna nulla, non serve
A fare alcun tipo di lavoro;
non la puoi usare
per segare un tronco
o per piantare un chiodo
o per muovere la terra
o per pulire il pavimento
o per spargere colore su una tela
e non la puoi puntare minacciosa
contro la cravatta di un commesso
non la puoi usare per truffare, non la puoi dare in prestito
né usarla in alcun modo al fine di ottenere una pensione.

Questa poesia è vuota dentro, è un fuori
Un fuori puro, senza contenuto a appesantirlo, ad abbrutirlo:
e vaga per lo spazio
come una mosca morta secca
vuota.

sabato 23 ottobre 2010

Frammento 367: I Porri

Una volta sono sceso per strada
E c’era pieno di porri.
Cioè, porri dovunque. Porri alle finestre, porri dai tombini
Porri titanici contornavano i viali
Alberati di porri.
Presi un tram.
Su di esso, il mio sguardo incrociò quello di un porro
Egli era alto tipo un metro e settanta, portava una busta della spesa
Traboccante porri, manco a dirlo
E un bel paio di baffi grigi.
Mi disse: “scusa”
“che c’è?” dissi
“c’hai mica l’ora?”
“le sette emmezza” risposi.
Lui ringraziò, poi scese.
Ero abbastanza scandalizzato, sicché decisi di cercare rifugio da un amico
Raggiunsi la sua casa
Citofonai
Una voce di porro rispose.

martedì 12 ottobre 2010

Nessuno fa amicizia coi mostri

Nessuno fa amicizia coi mostri
Eppure quando ne scovano uno
E lo stanano dai suoi meandri bui
Gli si fanno tutti intorno, puntandogli
Alla gola
Microfoni e riflettori
Cogliendo coi teleobbiettivi
Dettagli scabrosi:
gli danzano intorno, ossessi
per qualche giorno, ininterrottamente.
Poi lo dimenticano.
Nessuno fa amicizia coi mostri.

lunedì 11 ottobre 2010

Solitudine di un ragazzo sciatto

Se tu adesso sei solo
È perché lei ha preferito quegli altri
Quelli puliti, educati, ben vestiti
Eleganti, mai volgari, disponibili al confronto
Niente affatto aristocratici, intellettualoidi
senza essere antipatici, alternativi ma alla moda.
E tu alle loro feste ti annoiavi
Tiravi fuori un libro
E ti fissavano interdetti.
E adesso il loro sorriso è scolpito
Nel cemento dei marciapiedi
E nel sangue di ferro della città
Eppure non ha
nessuna ragione
Di esistere.

Solitudine di un ragazzo sciatto (take II)

Le mie scarpe non erano più nuove,
consistenti abbastanza
Da trovare la strada
Per entrare nella tua vita.
I capelli spettinati e la barba troppo lunga
Per brillare nelle foto
E i pantaloni
E la camicia
Scombinati.
E così hai voluto lasciarmi
Per il manichino
Di una vetrina.

lunedì 27 settembre 2010

Lapide di un figlio degenere

Guardavo mio padre mangiare;
Le guance già flosce, lo sguardo abbassato
La barba rada (neve sporca in un giorno di pioggia)
Gli abiti luridi che indossava in casa;
E poi i rumori:
Il risucchio, lo schiocco
Inframmezzavano le parole
A ogni boccone
Spalancava la bocca e inspirava
pesantemente
Mostrando la lingua.
Mangiava del riso, la torta salata, una pesca
A morsi voraci, nel mentre sparlava
Del lavoro e di tutto e di tutti..
Poi usciva di casa: indossava cravatta e sorriso
E una zaffata di deodorante
Accecante: quello che accade
Quando un contadino si vuole borghese.

Mi trasferii in quei giorni in una grande città
Ballai nuovi ritmi
E persi quello dei sentieri, delle strade di campagna
E lessi troppo, bevvi troppo
E queste sono le ragioni per cui sono qui
Dove ora
Dormo rinchiuso.

Mi sono sentito solo, mostruosamente solo.
Non distogliete lo sguardo
Quando passate di qui.

giovedì 23 settembre 2010

Verso mezzanotte (settembre 2010)

Verso mezzanotte
Il vino mi guarda
Mentre sembra dormire
Nella sua bottiglia

Verso mezzanotte
I più stanchi degli uomini
Scendono in strada col cane

Verso mezzanotte
Una prostituta ti sorriderà
Dolcemente, al semaforo

Verso mezzanotte
Ragazze dai tacchi alti
Vanno a dormire, in tram

Verso mezzanotte
Un vecchio malconcio, chitarra in spalla
In un viale oscuro...

È verso mezzanotte
Che riesco a leggere gli spartiti dei grilli

Ed è verso mezzanotte che si affilano le lame
per combattere l’Incubo
con la segreta speranza di atterrare invece nel Sogno

E poi è verso mezzanotte
Che ho deciso di dimenticarti
E non a caso...

Verso mezzanotte
Questa volta
Farò ritorno a casa.

lunedì 20 settembre 2010

Un cane (marzo 2009)

Un cane
È una cosa terrena, sincera
Lo insulti e sorride, ti morde le mani
Fa festa, rumore
Balla e canta
sgraziato com’è,
ma i suoi occhi lasciano vedere
un amore che solo lui sa, una fede di legno
che cresce e cresce
nella terra del suo cuore;
e ogni tanto diventa
ululato alla luna, ricordo;
ma lui già tuffa le zampe
nel bacile dell’acqua
e dimentica tutto.

Un ubriaco (settembre 2010)

Sono rientrato che era ancora buio
E sono rimasto sveglio, non so perché
A centellinare quel che rimaneva di una bottiglia di vino rosso.
Ero in cucina e la bottiglia sul tavolo divideva a metà la stanza, due metà precise, come in quel quadro di Cézanne
(alcuni forse lo conoscono)
Quel quadro coi due tizi che giocano a carte, i cappelli sulla fronte
E una bottigliaccia nera che li divide:
e divide in due tutto il quadro, ed è la bottiglia a dare un significato al quadro;
Pensavo così, e a un certo punto
Mi sono alzato per andare a letto
Mi sono appoggiato al lavandino
Ci ho sputato dentro.
-E bella forza!
Dite voi
-Bella roba stare là
In un bar
a perdere coscienza un po’ per volta!
E poi tornare a casa e manco avere l’educazione
Il tatto
La classe
Di sputare nel cesso.
No.
Nel lavandino.
Che schifo.
E io non so bene cosa rispondervi.
È che il vino, pur comportando tutta una vasta serie di spiacevolezze,
Mi permette di fuggire e allontanarmi di problemi: che sono tanti,
ma è un fuggire velocissimo e irraggiungibile, di breve durata ma incredibilmente efficace, anche contro gli inseguitori più tenaci.
Io sfido
Io sfido i parenti serpenti
Le maschere dei politicanti
E le loro cravatte, e le cravatte di chiunque
E il calcio in tutte le declinazioni possibili
E i musei e i semafori e i taxi e i tram e la folla di un pomeriggio di mercoledì di tarda estate coi suoi fidi gelati e cani d’appartamento e i bonsai e i vegetariani e gli ecologisti che lottano per le foreste -senza mai averla vista nemmeno da lontano,una foresta- e le vetrine alla moda e l’indie e tutti gli altri fessi e le discoteche e gli happy hour e una bella dose di cantanti e per finire probabilmente anche te, che mi stai a guardare sospettoso
Io sfido tutti quanti
A raggiungere e turbare la pace di un ubriaco
Salpato a bordo del suo letto
in un vorticante oceano di buio, velato di nausea.

Col frastuono (Maggio 2010)

La strada è una tale ressa di
Scolaresche in disarmo;
simoniaci;
bugiardi;
ragazzini che si credono teppisti;
suore barboni vecchie comunisti
–ma di quelli convinti;
carogne di piccioni;
coglioni, avvocati;
signori elegantissimi e affilati
che mangiano gelati;
sbirri in borghese;
artisti di strada feroci;
cani;
ladri, zingari, falsari, indolenti, ubriaconi;
violenti, drogati, letterati appassionati;
ipocriti –ma tanti;
alpini, cantanti;
semafori, badanti;
Giuristi, spazzini e cavadenti;
Che per attraversarla, col frastuono nelle orecchie,
serve un pochino di coraggio.

Un Concerto (14-6-09)

Il clarinetto, incantatore di serpenti,
Saltella ansiogeno e argentino
Canta acuto e solo, d’ebano.
Il contrabbasso voce tiepida
nera di terra, di dita sulle corde
di attimi pizzicati.
Il batterista è una statua muta, e un’intera orchestra
Le braccia lasciano i piatti a dondolare
Coprono di suono e di ritmo le pelli.
La chitarra balla ed è un’ombra
Veloce, che passa, di legno e d’aria
E non tace, non tace e continua a ballare.

E la luna e la piazza sono incantate, io penso lontano
Passano due cappelli nell’ombra dietro a un muro,
è mezzanotte.