I
Me voici donc seul sur la terre, n’ayant plus de frère,
de prochain, d’ami, de société que moi-même. Le plus sociable et le plus aimant
des humains en a été proscrit par un accord unanime. Ils ont cherché, dans les
raffinements de leur haine, quel tourment pouvait être le plus cruel à mon âme
sensible, et ils ont brisé violemment tous les liens qui m’attachaient à eux. (Rousseau 1930,
195)
Queste
parole potrebbero essere scambiate per un passaggio delle numerose invettive
che la creatura di Frankenstein
proferisce contro il proprio creatore e l’intero genere umano. Il contenuto di
queste frasi si adatta perfettamente ai sentimenti della creatura,
improvvisamente trasformata in un mostro – un nemico dell’umanità – dalla sua
cacciata dal cottage dei De Lacey. Il tono del discorso, pronunciato in
francese, l’unica lingua nota al mostro, descrive esattamente l’esperienza di
solitudine e disperazione che la creatura racconta nel corso del suo incontro
con Victor Frankenstein nel vano tentativo di suscitare pietà e comprensione.
Tuttavia queste parole non provengono dal romanzo di Mary Shelley: si tratta
invece del passaggio iniziale di Rêveries
d’un promeneur solitaire di Jean-Jacques Rousseau. Questa somiglianza non è
una coincidenza: le opere e le teorie di Rousseau hanno influenzato
profondamente l’autrice di Frankenstein,
fornendo una premessa filosofica e una potente fonte di temi e suggestioni.
Rousseau
era una delle presenze più forti nell’ambiente intellettuale in cui Mary
Shelley produsse il suo capolavoro. Entrambi i genitori della scrittrice avevano
dedicato imponenti studi al filosofo ginevrino, e le loro opere rivestirono un
ruolo di primaria importanza nella formazione della figlia. In The Surprising Effects of Sympathy, David
Marshall riferisce che nel 1815, un anno prima della scrittura di Frankenstein, l’autrice “read Rousseau’s
Confessions, Émile, and La nouvelle
Héloïse […] as well as the three books that constitute the monster’s
education” (Marshall 1988, 228) – i tre libri (I dolori del giovane Werther, le Vite di Plutarco, e Paradise
Lost) che Peter Brooks ha definito “a possible Romantic cyclopedia universalis” (Brooks 1979,
210). L’estate dell’anno seguente (noto, in verità, come “the year without a
summer”, per le condizioni climatiche particolarmente cupe e aspre che vi si
verificarono) fu trascorsa da Mary Shelley in un’ambientazione ginevrina che divenne
quella del romanzo “because of that city’s associations with Rousseau” (Bate 1996,
477); secondo lo studioso francese Lecercle, “le conte est [...] criblé
d’allusions à Jean-Jacques, et c’est aussi en ce sens que Genève n’est pas
seulement un cadre pittoresque” (Lecercle 1988, 38). Inoltre e soprattutto, i
compagni e mentori di Mary Shelley, ossia il marito Percy e Lord Byron, erano
entrambi conoscitori delle opere di Rousseau, e “in the spring and summer of
1816, English romantic discussion of Rousseau became suddenly abundant” (Duffy
1979, 86).
Questo
non significa che l’approccio di Mary Shelley nei confronti del grande filosofo
fosse dogmatico o basato sulla semplice ammirazione. Mary Wollstonecraft, pur
essendo un’ammiratrice di Rousseau, era stata fortemente critica nei suoi
confronti per via delle idee sull’educazione delle donne espresse in Émile[1]. In un certo senso Mary Shelley
ereditò dalla madre l’attitudine polemica nei confronti del ginevrino: dedicò
il suo primo romanzo all’esplorazione e lo sviluppo dei problemi posti dalle
affermazioni di Rousseau, e dei limiti di queste ultime.
II
L’influenza
di Rousseau sulla stesura di Frankenstein
è profonda, non solo in quando fonte filosofica ma anche in termini di
modello concreto di scrittura. Il capolavoro di Mary Shelley è solitamente
presentato come discendente del romanzo gotico; bisognerebbe aggiungere che la
scrittura, in esso, è soprattutto di natura autobiografica: “the most striking
allusion to Rousseau’s biography in the monster’s life story is that the
monster has an autobiography” (Marshall 1988, 193).
Il
genere autobiografico fu uno dei pilastri della produzione rousseauiana, e
probabilmente quello in cui il filosofo si dimostrò più innovativo e prolifico.
Di fatto non solo il mostro, ma anche Walton e Victor sono presentati
attraverso i racconti che essi stessi elaborano delle loro vite, in un “labyrinth
of mirror-like, embedded stories” (Brantlinger 1996, 469). Ognuno di questi tre
personaggi presenta la sua personale esperienza mediante una narrazione
autobiografica, come fece Rousseau nelle Confessions
e in Rêveries d’un promeneur solitaire.
Inoltre, sotto molti aspetti (la difficile istruzione, il fascino della natura,
e soprattutto il bisogno turbato di simpatia e rapporti umani), le storie di
Walton, di Victor e del mostro ricordano quella di Rousseau.
Per
esempio, il comportamento di Victor è a volte identico quello di Rousseau,
descritto nelle Rêveries d’un promeneur
solitaire: “I took the boat, and passed many hours upon the water. Sometimes,
with my sails set, I was carried by the wind; and sometimes, after rowing in
the middle of the lake, I left the boat to pursue its own course” (Shelley
1996, 62). Questa descrizione sembra quasi una parafrasi del
passaggio di Rousseau: “j’allai me jeter seul dans un bateau que je conduisais
au milieu du lac quand l’eau était calme; et là, m’étendant tout de mon long
dans le bateau, les yeux tournés vers le ciel, je me laissais aller et dériver
lentement au gré de l’eau” (Rousseau 1930, 271-272). È dunque possibile
estendere l’affermazione di Marshall che “what seems paranoid or hyperbolic in
Rousseau’s autobiography is literally true in the life story of the monster”
(Marshall 1988, 191) a Victor: la creatura e il creatore condividono i
sentimenti di Rousseau, la colpa e la solitudine espressi nel passaggio citato
all’inizio di questo mio scritto, così come nelle seguenti parole tratte da Rêveries d’un promeneur solitaire:
“pouvais-je, dans mon bon sens, supposer qu’un jour [...] je passerai, je
serais tenu, sans le moindre doute, pour un monstre, un empoisonneur, un
assassin; que je deviendrai l’horreur de la race humaine?” (Rousseau 1930, 196). La loro
storia letteralizza i sentimenti dovuti alla condizione nevrotica del Rousseau
delle Confessions.
L’incipit
dell’Émile[2] potrebbe funzionare come
epigrafe alternativa per Frankenstein,
mentre il paragrafo che apre il Discours
sur les sciences et les arts[3]
potrebbe svolgere
la stessa funzione, in chiave tragicamente ironica, per l’impresa di Victor. In
numerose situazioni, Frankenstein
sembra inteso a testare dichiarazioni di Rousseau, o a estendere l’esperimento
del ginevrino dal piano del pensiero a uno più concreto: “Rousseau’s work in
general, and Émile in particular,
ought to be viewed […] as a deliberate thought experiment, asking what
consequences would follow if society were in fact to be grounded on human
nature. A similar thought experiment seems to inspire Mary
Shelley’s novel” (Lipking 1996, 476). Per esempio, la frase “si l’homme
naissait grand et fort, sa taille et sa force lui seraient inutiles jusqu’à ce
qu’il eut appris à s’en servir” (Rousseau 1964, Émile ou de l’éducation, 6) sembra quasi descrivere teoricamente le
prime settimane di vita della creatura, la sua goffa esplorazione dell’ambiente
circostante. La
descrizione che Rousseau dà delle sue prime esperienze sensoriali[4] è simile a quella della creatura[5]: le accomuna il fatto che la
sensibilità appare prima del controllo razionale e analitico, in linea con la
concezione rousseauiana della gerarchia delle facoltà umane.
Questo
mostra come Mary Shelley abbia assimilato alcune concezioni esposte nelle opere
di Rousseau. L’autrice, però, andò oltre: le Vite parallele di Plutarco, uno dei tre pilastri dell’educazione
del mostro, appaiono anche nella lista delle prime letture di Rousseau, e anzi “Plutarque
surtout devint ma lecture favorite” (Rousseau 1930, 10). La vita
della creatura nei boschi rassomiglia per molti aspetti alla descrizione
rousseauiana dell’ homme sauvage: “se
rassasiant sous un chesne, se désaltérant au premier ruisseau, trouvant son lit
au pied du même arbre qui lui a fourni son repas” (Rousseau 1964, Discours sur l’origine et le fondements de
l’inégalité, 135). La
creatura gradualmente scopre abiti, fuoco e linguaggio in un modo che ricorda i
successi dei selvaggi di Rousseau. Soprattutto, scopre la diseguaglianza che
senza possibilità di riscatto lo separa dal genere umano, una differenza più
forte e assoluta di qualsiasi tipo di inégalité
sociale o materiale presa in considerazione da Rousseau. Questa barriera, che
inesorabilmente impedisce alla creatura di trovare un qualsivoglia tipo di
simpatia, può essere vista come uno dei principali temi del romanzo.
III
La
simpatia, ovvero “the capacity to feel the sentiments of someone else” (Marshall
1988, 3), è stata il principale tema di innumerevoli saggi e romanzi del
diciottesimo secolo, e una delle più grandi preoccupazioni filosofiche di
Jean-Jacques Rousseau. Nello studio rousseauiano delle passioni, la forte
connessione tra amore per sé e amore per gli altri è alla base delle relazioni
umane: “Le premier sentiment d’un enfant est d’aimer lui-même; et le second,
qui dérive du premier, est d’aimer ceux qui l’approchent” (Rousseau 1964, Émile ou de l’éducation, 248). Lo
sviluppo della pitié, intesa come
capacità di immedesimazione, di empatia nei confronti della sofferenza degli
altri, è uno dei passaggi più importanti dell’educazione di Émile. Per questo
motivo, uno dei requisiti più importanti del suo mentore ideale è la
giovinezza: “je voudrais […] qu’il put devenir le compagnon de son élève, et
s’attirer sa confiance en partageant ses amusements” (Rousseau 1964, Émile ou de l’éducation, 26); un grande
ruolo è dunque assegnato alla capacità di condividere sentimenti. Frankenstein potrebbe essere letto come
la storia del fallimento nello sviluppare e nel mostrare simpatia e pietà. Gran
parte delle sciagure contenute nel romanzo è causata da incomprensioni, da
un’assenza di comunicazione.
Innanzitutto,
il fallimento dell’educazione di Victor è conseguenza dell’assenza di
simpatia-empatia tra lui e suo padre: il giovane cittadino di Ginevra ha tutte
le potenzialità per diventare un individuo compiuto e felice, ma qualcosa va
storto. La catastrofe inizia quando suo padre mostra tutto il suo disprezzo per
il volume di Cornelio Agrippa: “My dear Victor, do not waste your time upon
this; it is sad trash” (Shelley 1996, 22). Questa
scena è per Lipking “almost a parody of several similar moments in Émile, when the all-wise tutor finds
just the right strategy to avert some threat to his pupil’s mental health”
(Lipking 1996, 427). Nel
paragrafo successivo Victor dichiara esplicitamente che se solo suo padre si
fosse preso la briga di spiegargli le vere condizioni della scienza dell’epoca
– in altre parole, di comprendere i sentimenti del figlio, i suoi desideri, e
comunicare con lui – il disastro della creazione di Victor non avrebbe avuto
luogo. La sua educazione avrebbe potuto svolgersi normalmente, lui non avrebbe
perso la sua empatia con parenti e amici – una assenza di comunicazione che
sarà notata spesso da Elizabeth e dal padre di Victor[6], e che causerà la morte di
Clerval. Una delle più grandi matrici dell’angoscia di Victor rimane, anche in
situazioni di grande pericolo e dolore, la percezione di una mancata simpatia;
persino, ad esempio, quando egli è malato quasi mortalmente e prigioniero in un
carcere irlandese: “I turned with loathing from the woman who could utter so
unfeeling a speech to a person just saved, on the very edge of death” (Shelley
1996, 128).
Anche
la narrazione di Walton è mossa da un disperato bisogno di simpatia: “I have no
friend [..] I bitterly feel the want of a friend. I have no one
near me, gentle yet courageous, possessed of a cultivated as well as of a
capacious mind, whose tastes are like my own” (Shelley
1996, 10). Senza questo impulso frustrato alla socialità,
probabilmente l’appassionata amicizia tra Walton e Victor avrebbe avuto una
intensità ben minore, così come le lettere del primo alla sorella: “the
relatively large proportion of Walton’s narrative devoted to these declarations
of sentiments suggests Mary Shelley’s interest in framing the stories of
Frankenstein and the monster with the problem of sympathy”
(Marshall 1988, 195). Il
problema della simpatia è dunque talmente cruciale da permeare persino la
cornice narrativa del romanzo.
Anche la morte di Justine è
causata da un malinteso, dai limiti della sensibilità umana:
“since the inner sentiment that would prove her innocence cannot be known, she
is condemned by the picture and appearances by which and trough which the world
construes her inner motives and judges her”
(Marshall 1988, 215). In
questo episodio, la miniatura della madre di Victor che incrimina Justine può
essere vista come simbolo concreto della “insurmountable barrier of human
senses” (Marshall 1988, 216). Colui che costruisce questo simbolo è, non sorprendentemente,
il mostro.
IV
La
creatura originata dall’esperimento di Frankenstein è probabilmente la vittima
principale del fallimento della simpatia. La sua esistenza è una serie di
tragici malintesi, che gradualmente trasformano la sua innata bontà in
malvagità e disperazione. Questo processo inizia nel primo istante della sua
vita, quando Victor si dà alla fuga a causa dell’aspetto ripugnante della
creatura a cui ha appena dato vita. Ancora una volta, la catastrofe è causata
dai limiti della sensibilità umana, dal fatto che “the different accidents of
life are not so changeable as the feelings of human nature” (Shelley 1996, 35).
Anche se Victor sa meglio di chiunque altro che cos’è la sua creatura, quando
quest’ultima inizia realmente ad esistere l’unica cosa che il creatore può fare
è abbandonarla in preda al terrore e al disgusto.
Dopo
il suo abbandono, la creatura inizia una vita da homme sauvage che si perverte in quanto solitaria e frustrante –
l’esatto opposto del processo mostrato nell’Émile,
nel quale un mentore onnisciente percepisce e indirizza ogni singolo movimento
dell’animo del discepolo. Dopo aver dolorosamente scoperto “the barbarity of
man” (Shelley 1996, 73) per colpa dei paesani che lo attaccano senza motivo
apparente, la creatura inizia la sua voyeuristica vita nel tugurio presso il
cottage dei De Lacey. Ecco una delle massime che, nel quatro libro dell’Émile, costituisconoil nucleo
dell’educazione sociale di Rousseau:“il n’est pas dans le cœur humain de se
mettre à la place des gens qui sont plus heureux que nous, mais seulement de
ceux qui sont plus à plaindre”(Rousseau 1964, Émile ou de l’éducation, 262). La relazione che si instaura tra la creatura e gli
abitanti del cottage sembra quasi concepita al fine di dimostrare che una salutare
empatia non può svilupparsi senza questa condizione. La devozione della
creatura nei confronti dei De Lacey si rafforza man mano che essa scopre le
loro disgrazie – in linea con la massima di Rousseau; ma questa passione è
destinata a essere frustrata perché i membri della sfortunata famiglia sono, di
fatto, di gran lunga più felici del mostro, e incapaci di considerarlo un loro
pari.
Nel
corso di questo periodo, al creatura compie molte importanti scoperte, come il
linguaggio e le elementari tecnologie impiegate nel cottage. La più importante,
tuttavia, è che la causa della sua solitudine è il suo aspetto esteriore: “I
had admired the perfect forms of my cottagers – their grace, beauty, and
delicate complexions: but how was I terrified, when I viewed myself in a
transparent pool! [...] and when I became fully convinced that I was in
reality the monster that I am, I was filled with the bitterest sensations of
despondence and mortification” (Shelley 1996, 78-79). Il potere dell’apparenza, in grado
di distruggere qualsiasi tipo di simpatia e comprensione nei confronti della
creatura, terrorizza persino i magnanimi De Lacey. L’episodio in cui la
creatura salva un bambino, e in tutta risposta viene attaccato e ferito da un
contadino, serve solo a confermare che è impossibile, per essa, trovare
solidarietà e amicizia: “the feelings of kindness and gentleness, which I had
entertained but a few moments before, gave place to hellish rage and gnashing
of teeth. Inflamed by pain, I vowed eternal hatred and vengeance
to all mankind” (Shelley 1996, 99).
Anche
dopo essere stato trasformato in nemico dell’umanità, il mostro non perde la
sua sete di simpatia. Questo impulso irrefrenabile motiva la sua richiesta a
Victor, e diventa la sua argomentazione più persuasiva: “You must create a
female for me, with whom I can live in the interchange of those sympathies
necessary for my being” (Shelley 1996, 101). La creatura ha compreso
perfettamente le cause della sua sofferenza: “I am malicious because I am
miserable, am I not shunned and hated by all mankind? [...]
Shall I respect a man, when he contemns me? Let him live with me interchange of
kindness, and, instead of injury, I would bestow every benefit upon him with
tears of gratitude at his acceptance. But this cannot be; the human senses are
insurmountable barriers to our union” (Shelley 1996, 102).
Nei sentimenti
espressi in queste frasi sembra di percepire un’eco:
Je sens mon cœur et je connais les hommes. Je ne suis
fait comme aucun de ceux que j’ai vus; j’ose croire n’être fait comme aucun de
ceux qui existent […] Je me suis montré tel que je fus; méprisable et vil quand
je l’ai été, bon généreux, sublime, quand je l’ai été : j’ai dévoilé mon
intérieur tel que tu l‘as vu toi-même. […] Que chacun découvre à son tour son
cœur aux pieds de ton trône avec la même sincérité; et puis qu’un seul te dise,
s’il ose: Je fus meilleur que cet home-là. (Rousseau 1930, 5-6)
Queste
parole, prese dalle prime pagine delle rousseauiane Confessions, illustrano uno degli impulsi principali alla base
dello sforzo autobiografico di Rousseau: la lotta volta a superare il vuoto
epistemologico che impedisce la comprensione reciproca agli esseri umani. Come
Rousseau, la creatura tenta disperatamente di stabilire una comunicazione
raccontando la storia della sua vita. Quest’ultima è, a partire dalle
circostanze della nascita, un simbolo dei molteplici modi in cui questo
tentativo può fallire.
Il
bisogno di simpatia del mostro si scontra col violento rifiuto di Victor, che
distrugge la femmina che stava creando; questo evento sembra essere l’ultimo
atto della trasformazione della creatura in bestia sanguinaria. L’essere aveva
già ucciso in precedenza, e con metodi astuti e malvagi, ma dal racconto del
suo primo omicidio[7] apprendiamo che, ancora una
volta, la violenza e la malvagità della creatura sono stati provocati dall’odio
degli altri, incapaci di comprenderne la natura innatamente buona. Dopo il
rifiuto di Victor, la creatura è definitivamente diventata un mostro
determinato a mantenere il suo minaccioso voto contro il creatore, in un climax di feroce violenza che trasforma
anche Victor in uno spietato cacciatore.
Tuttavia
nel finale del romanzo il mostro risulta, a conti fatti, non così inumano.
Nella sua ultima apparizione a Walton, il sentimento che ora lo domina non è
più di solitudine o disperazione, ma di rimorso: “it is true that I am a
wretch. I have murdered the lovely and the helpless; I have
strangled the innocent [...] who never injured me or any other living thing.
[...] You hate me; but your abhorrence cannot equal that with which I regard
myself” (Shelley 1996, 160).
Questa
confessione di sofferenza e colpa può essere vista come un esempio della
pericolosa eloquenza del mostro – una sorta di forma distorta di simpatia, uno
dei tratti condivisi con Rousseau (come sostiene Marshall, l’autore ginevrino
era ammirato e allo stesso tempo criticato dai suoi contemporanei per la sua
eloquenza spinta fino al sofisma[8]). Il precedente racconto degli omicidi
del mostro, ad opera dell’assassino stesso, è in grado di mostrarli sotto una
luce differente, e quasi giustificarli. Ho già citato l’uccisone del piccolo
William; un altro caso è la descrizione della decisione di uccidere Elizabeth:
il mostro la presenta come un atto non premeditato, dovuto alla scoperta che
Victor, sposandosi, “dared to hope for happiness” (Shelley 1996, 159). In
verità, il progetto omicida era già stato enunciato, seppur ambiguamente, già
quando Victor aveva rifiutato di creare una compagna al mostro: “remember, I
shall be with you on your wedding-night” (Shelley 1996, 120).
Cionondimeno,
questa volta il mostro prova la sincerità del suo discorso: la sua ultima
volontà, che è di morire e sparire senza lasciare traccia, verrà esaudita. In
conclusione, odiando e distruggendo sé stesso, il mostro ha finalmente trovato
l’empatia-simpatia del genere umano, il quale non ha potuto concepire, verso di
lui, altro che odio.
Bibliografia
Bate, Jonathan. 1996. “Frankenstein
and the State of Nature”. In Frankenstein,
by Mary Shelley, edited by J. Paul Hunter, 476-480. New York: W. W. Norton
Company.
Brantlinger, Patrick. 1996.
“The reading monster”. In Frankenstein,
by Mary Shelley, edited by J. Paul Hunter, 468-475. New York: W. W. Norton
Company.
Brooks, Peter. 1979. “‘Godlike
Science/Unhallowed Arts’: Language, Nature and Monstrosity”. In The Endurance of Frankenstein. Essays on
Mary Shelley’s Novel, edited by George Levine and U. C. Knoepflmacher,
205-220. Berkeley and Los Angeles: University of California Press.
Duffy, Edward. 1979. Rousseau in England. The Context for
Shelley’s Critique of the Enlightenment. Berkeley and Los Angeles:
University of California Press.
Herman, David. 2011. “Re-minding
Modernism”. In The
emergence of mind: representations of consciousness in narrative discourse in
English, edited by David Herman, 243-272. Lincoln, Neb. : University
of Nebraska Press, 2011.
Lecercle, Jean-Jacques. 1988. Frankenstein: mythe et philosophie.
Paris: Presses Universitaires de France.
Lipking, Lawrence. 1996. “Frankenstein,
the True Story; or, Rousseau Judges Jean-Jacques”. In Frankenstein by Mary Shelley, edited by
J. Paul Hunter, 416-433. New York: W. W. Norton Company.
Marshall, David. 1988. The Surprising Effects of Sympathy.
Marivaux, Diderot, Rousseau and Mary Shelley. Chicago: the
University of Chicago Press.
Rousseau, Jean Jacques. 1930. Les Confessions suivies des Rêveries d’un
promeneur solitaire. Paris: A la cité de livres.
Rousseau, Jean-Jacques. 1964. Discours sur les sciences et les arts,
in Œuvres complètes III. Paris:
Gallimard.
Rousseau, Jean-Jacques. 1964. Discours sur l’origine et le fondements de
l’inégalité, in Œuvres complètes III.
Paris: Gallimard.
Rousseau, Jean-Jacques. 1964. Émile ou de l’éducation. Paris: Éditions
Garnier Frères.
Scott, Peter Dale. 1979. “Vital
Artifice: Mary, Percy, and the Psychopolitical Integrity of Frankenstein”. In The Endurance of Frankenstein. Essays on
Mary Shelley’s Novel, edited by George Levine and U. C. Knoepflmacher,
172-204. Berkeley and Los Angeles: University of California Press.
Shelley, Mary. 1996. Frankenstein. New York: W. W. Norton
Company.
[1] Come Lawrence Lipking sostiene nell’articolo “Frankenstein, the True
Story; or, Rousseau Judges Jean-Jacques” (Lipking 1996). Si
veda anche il contributo di Scott “Vital Artifice: Mary, Percy, and the
Psychopolitical Integrity of Frankenstein” (Scott 1979).
[2]
“Tout est bien sortant des mains de l’Auteur des choses, tout dégénère entre
les mains de l’homme” (Rousseau 1964, Émile
ou de l’éducation, 5).
[3]
“C’est un grand et beau spectacle de voir l’homme sortir en quelque manière du
néant par ses propres efforts; dissiper, par les lumières de sa raison, les
ténèbres dans lesquelles la nature l’avoit enveloppé; s’élever au-dessus de
soi-même” Rousseau 1964, Discours sur les
sciences et les arts, 6).
[4] “Je
sentis avant de penser: c’est le sort commun de l’humanité” (Rousseau 1930, 9).
[5]
“A strange multiplicity of sensations seized me, and I saw, felt, heard, and
smelt, at the same time; and it was, indeed, a long time before I learned to
distinguish between the operations of my various senses” (Shelley 1996, 70).
[6] Nessuno dei due è in grado di capire
la vera causa delle sue sofferenze (che lui non può confessare), sicché
entrambi falliscono nel tentativo di aiutarlo (si veda Shelley 1996, 61-63).
[7]
“The child still struggled,
and loaded me with epithets which carried despair to my heart: I grasped his
throat to silence him, and in a moment he lay dead at my feet” (Shelley 1996,
100); qui la morte del bambino sembra quasi un incidente provocato dalle sue
stesse parole, le quali hanno portato la creatura alla disperazione, rendendola
violenta.
[8]
Vedi Marshall 1988, 193.