domenica 4 marzo 2012

Il soggetto (2)

Alla prima parte: http://versomezzanotte.blogspot.com/2012/03/il-soggetto-1.html

Ora, capitò che si dovesse rieleggere il potestà. In quella piccola città di provincia, era praticamente una formalità: le elezioni si tenevano ogni sei anni, il nostro era già al terzo mandato (non c’erano limitazioni) ed era conosciuto da tutti come “persona onesta” che non dava fastidio a nessuno e non aveva nella testa la pericolosissima “idea di voler cambiare il mondo”, non faceva domande e rivoluzioni, ed era ben disponibile a compiere con massima cura il suo lavoro: che era di fare nulla, degnandosi quotidianamente di apporre qualche firma. Era in sostanza l’uomo che girava la manovella della macchina burocratica locale, continuamente, senza grande sforzo, per fare sì che il corso degli anni non si facesse avvertire più di tanto,e tutti restassero più o meno felici e contenti. Nonostante la certezza di vincere (l’altro candidato era un pirla,un perfetto sconosciuto di quelli che “solo sua madre lo vota”) per rispettare tutto il cerimoniale delle elezioni il potestà fece incollare in giro per il paese, accanto ai necrologi e alle locandine delle orchestre di liscio, un po’ di manifesti con sopra il suo nome e la sua faccia. Erano dei brutti manifesti, dei manifesti mediocri, adatti in tutto e per tutto alla circostanza. Su uno sfondo giallo-isterico si stagliava il suo volto ipocrita, il cui sorriso pulito fino all’inverosimile attraversava una buona metà della larghezza della carta. In un angolo, il simbolo del Partito, azzurro e verde e bianco e rosso, minuscolo e variopinto nella sua inutilità; nessuna frase, solo nome e cognome del potestà, peraltro ormai ben conosciuti da tutti.
Un giorno il soggetto in questione, perso nei suoi vagabondaggi, si trovò davanti una delle bacheche della città, ricoperta, oltre allo strato di locandine e annunci ormai troppo stinti e consunti per poter avere significato, di quei manifesti elettorali. Sui pannelli di legno vecchio, ammuffito e costellato di buchi e puntine arrugginite, la fila di sguardi occhialuti del potestà si stendeva monotona. Uno dopo l’altro, come una fila di soldati, quei sorrisi beceri e finti fissavano il vuoto dal nulla giallo acceso della carta in cui erano intrappolati: sembravano tendersi verso l’esterno, verso la fuga nel mondo di fuori. Fuori però c’era il soggetto. Ebbene, osservò per un mezzo minuto i manifesti elettorali. Poi raccattò da terra un pezzo di carbone, si guardò accuratamente intorno, e si avvicinò alla prima immagine della fila. Non c’era nessuno per la strada. Il sorriso spalancato del potestà assumeva, nella gigantografia, una dimensione sproporzionata. Quei manifesti, quelle foto che faceva attaccare in giro, non è che fossero particolarmente grandi, ma per qualche ragione l’insensata corona di denti vi appariva gigantesca, troppo grande anche per il faccione del potestà. Gli incisivi, gli incisivi in particolare: saranno stati larghi almeno tre o quattro dita: larghi come un pezzo di carbone.
Il soggetto in questione, dopo un ultimo sguardo intorno, lasciò perdere la cautela e sfregò l’incisivo sinistro del potestà fino a renderlo completamente nero. Quella faccia stereotipata e linda assunse l’aspetto becero di un ragazzino sorridente che si sia appena preso un cazzotto nei denti e non ne abbia ancora preso atto; di un beone appena uscito da una rissa, che per la sbronza non sente il dolore. Talmente ridicolo da far ghignare, poi scoppiare a ridere il soggetto in questione. Che, dopo aver lanciato il pezzo di carbone in un’aiuola, se ne andò.
Prima che fosse sera, qualcuno notò il sensazionale atto vandalico. Il potestà ne fu informato, e la mattina dopo mandò un inserviente a incollare sul manifesto deturpato una nuova immagine: così la fila tornò a fare mostra in bell’ordine della propria inutilità. Peccato che l’assassino torni sempre sul luogo del delitto: anche quel giorno, anzi forse proprio per curiosità di rivedere la sua opera, il soggetto in questione si trovò a passare per quella via e si accorse dell’avvenuta sostituzione. Ridacchiò: non si aspettava una reazione così pronta. Cercò un altro pezzo di carbone,e raddoppiano gli sguardi e la prudenza annerì di nuovo lo stesso dente della stessa prima immagine che era stata vittima il giorno precedente.
Gli abitanti di quel paese, come tutti i provinciali, in fondo, nascondevano una certa arguzia sotto una pesante maschera di apparente ignoranza, di immobilismo. O meglio, forse erano veramente ignoranti: ma ignoranti dell’apparenza, del gusto raffinato dei cittadini, fatto di convenzioni e abitudini. Non ignoravano invece la vita, e perciò possedevano un umorismo sardonico e pesante, poco disposto a risparmiare i soggetti facili. La mattina dopo era domenica, una bella domenica umida d’aprile, e il potestà in persona stava facendo una passeggiata a piedi; pensò di passare proprio per la via dove il suo volto aveva ricevuto l’affronto. Ci rimase quasi secco, quando vide la solita prima immagine della fila: non solo il suo incisivo sinistro era sparito sotto uno strato nero di carbone, ma qualcun altro aveva aggiunto – e con vernice e pennello, mica solo a carbone! – aveva aggiunto un bel paio di corna diritte! E aveva scritto, sulla sua fronte: Giocondo: a caratteri cubitali. Immediatamente “dette disposizioni affinché” l’onta fosse lavata con la cancellazione immediata di quei segni di inciviltà. Un manifesto nuovo di pacca fu incollato sopra allo scempio.
Quell’imbecille del potestà non mancava, nel suo piccolo, di essere una persona presuntuosa. L’”onore” era di fatto la parte più vulnerabile della sua persona. Fu per questo che lunedì mattina si recò di nuovo, nel suo orario d’ufficio, a controllare di persona che tutto fosse in ordine. Il potestà passò poco prima di mezzogiorno – erano le prime giornate calde, l’aria stessa ormai aveva iniziato a trasmettere segnali di vita verdi, decisi. Fu con soddisfazione che constatò che i vandali non si erano presentati dal giorno precedente, e se ne andò a fare “colazione” alla trattoria che suo fratello gestiva in un vicolo del centro.
Mentre il potestà sfogliava il menù, appoggiato alla tovaglia a quadri di un solido tavolo nel suo ristorante preferito, sentì distrattamente suonare la campana della scuola pubblica locale, a qualche isolato di distanza. Era il segnale della fine della giornata di scuola. I ragazzini delle varie classi invasero le vie della cittadina: tra questi, c’era la quarta classe del ginnasio, la penultima. La classe del soggetto in questione. Una volta uscito, il ragazzo non andò subito a mangiare (c’era abituato, sopportava la fame). In compenso fece un lungo giro per le vie silenziose, svuotate dall’ora di pranzo. Dopo aver vagabondato per una ventina di minuti, si diresse nel luogo che ben sappiamo. Fin dal mattino aveva badato a procurarsi un pezzo di carbone, per non doverlo cercare sul posto. Una volta arrivato presso la fila di manifesti, si avvicinò per l’ennesima volta al primo. E via, ormai era un atto facile: la circospezione non lo rallentava, quasi in automatico era in grado di annerire il dentone, l’incisivo sinistro del potestà. Ghignando, per la quarta volta il soggetto in questione se ne tornò verso casa.

giovedì 1 marzo 2012

Il soggetto (1)

Il soggetto in questione era, all’età di quattordici anni, un autentico coagulo di bruttezza e cattiveria. Era un botolo egoista e disperatamente privo di amici. Ma “il ragazzo cresce solo e non si sente solo mai”, e la cosa non gli dava dolore, minimamente. Almeno, questo credeva lui. E quando il cuore, tuttavia, gli soffocava sotto un peso apparentemente insostenibile, in quei momenti lui semplicemente se ne andava a vagabondare da qualche parte. Spesso nella campagna vuota, a consumare un po’ di crudeltà contro un qualche albero o una bestia sfortunata. Altre volte si spingeva fino alla città più vicina. Non aveva soldi,e quindi non è che ci potesse fare granché, ma l’odore sfolgorante e caotico della città garantiva comunque maggiore varietà, maggiore attrattiva rispetto al niente desolato delle stradine fangose e dei fossi e dei campi a perdita d’occhio, “a perdita d’animo”. Eppure la città era lontana, per arrivarci bisognava affrontare il treno e i suoi controllori: questo spiega la rarità delle spedizioni urbane del soggetto in questione.
Il soggetto in questione era la disperazione degli insegnanti, per ovvie e numerose ragioni: si trattava di un ragazzo indisciplinato, caotico, violento, volgare, e tuttavia mai passivo o stupido; non si fece mai segare, in altri termini. Pareva non aprisse libro, ma ogni anno, agli esami finali, si salvava per il rotto della cuffia, con sangue freddo esemplare. Non solo non studiava, si rifiutava anche di leggere, anche i romanzi d’avventura coi quali il professore di letteratura, Q, tentava di accattivarselo. Disprezzava caparbiamente qualunque forma di cultura tentassero di propinargli: detestava la carta. Faceva scherzi grevi, dolorosi… ma non erano nemmeno scherzi, non facevano ridere nessuno, neanche lui. Al di là di tutto questo, il suo difetto peggiore restava l’incomunicabilità, la muta ostinazione a non lasciar trasparire nulla di sé e nel non voler capire nulla degli altri – era così sia con i compagni che con i maestri. La famiglia era perlopiù assente o irreperibile – nemmeno il professor Q, quello più interessato, più attento ai ragazzi, arrivò a farsi un’idea precisa di cosa facessero e dove fossero i genitori. D’altronde il ragazzino non aiutava, era un muro impenetrabile… proprio quando paradossalmente avrebbe dovuto essere lui il tramite principale: gli unici contatti si limitavano a qualche dichiarazione firmata, a qualche telefonata secca e scheletrita in un deserto di silenzi. A occuparsi di queste cose era soprattutto il padre – si diceva fosse alcolizzato – mentre la madre era davvero invisibile. Ma d’altronde il corpo docente e il preside se ne fregavano (a pieno diritto e col massimo decoro, nella loro ottica), e il professor Q era quotidianamente alle prese con dozzine di altri ragazzi altrettanto problematici. Di conseguenza i mesi erano autorizzati a scorrere senza che cambiasse assolutamente nulla – almeno fino a quando il soggetto in questione non avesse raggiunto il tremine dell’istruzione obbligatoria, che l’ammirevole legge del lucente imperatore Stanislao II aveva portato a sedici anni: mancava ancora abbastanza tempo da potersene infischiare.
Com’era, il soggetto in questione? Altezza media, massiccio di fisico, un volto inespressivo, imberbe. Una di quelle facce da ladro che, se non vogliono, non ti dicono nulla; e fanno una fatica maledetta a rimanere impresse. Lo sguardo cupo e bovino non lasciava trasparire nulla se non una specie di rognoso malanimo. Si lavava poco, si vestiva in modo casuale, anonimo: non propriamente sciatto ma, apparentemente, senza la minima attenzione. Disprezzava con indifferenza sorda la cura che normalmente, a quell’età, si inizia a dedicare all’aspetto fisico. Queste cose ovviamente lo rendevano ben poco popolare presso i coetanei, il che non gli era di gran peso, vista la propensione alla solitudine e il fatto che la scuola rappresentava una parentesi relativamente breve nelle sue giornate. Ben pochi compagni, poi, si sarebbero permessi di attaccarlo direttamente: aveva un aspetto tutto sommato minaccioso. Gli sfottò, il clima di presa per il culo parevano scorrergli addosso come acqua fresca, non suscitavano in lui la minima reazione visibile.

Alla seconda parte: http://versomezzanotte.blogspot.com/2012/03/il-soggetto-2.html