Guardo i figli dei lazzari. Alti, slanciati, la loro magrezza non contiene nulla se non il più stretto essenziale. Vestiti poco, di nero; le loro grosse scarpe robuste e impolverate vagabondano per la città senza meta. Così come i loro corpi forti, veloci, senza lavoro, sono soltanto inutili bocche perennemente affamate. Gli resta il desiderio di avere tabacco e bottiglie e “qualche deca” al mese ed è tutto ciò di cui hanno bisogno per tirare a campare: ormai, l’unico obiettivo della loro vita. Il futuro è la voragine in cui è precipitato tutto quanto il resto; il lavoro è per chi ce l’ha già, per chi c’ha la bottega del babbo, per chi c’ha l’estero per andarci a studiare. Per i morbidi figli dei signori, col gilè lavato di fresco. Quanto diversi, loro, i loro corpi, fatti di muscoli cresciuti dalla palestra e dalla piscina, quanto diversi dai muscoli brutti spuntati per la strada come more nei rovi. Guardo i figli dei lazzari stare in piedi sotto il peso del sole di agosto, fare casino in piazza. I loro giochi ancora infantili confinano con la rissa e la rivolta. E il loro volto, sotto barbe incomplete ma già decise e mal rasate, mostra una determinazione invincibile a vivere. Una fame. E non basta a lenire la fame il lavoro alla giornata nel cantiere o nel mercato, quindi il loro volto si copre di una provvidenziale sciarpa o di un passamontagna nello scippo o nella rapina, o nell’arrotolare i lunghi cavi di rame rubati alla ferrovia, da rivendere. O nell’inutile rivolta di lanciare una tegola, un pezzo di mattone, sugli impeccabili berretti dei gendarmi nella ressa quando ci si avvicina al palco delle autorità. Ed eccoli i figli dei lazzari, a sputare per terra quando passa il vescovo, alla maniera degli zingari. A bere birra alle otto del mattino. A sgomitare tra le braccia forti degli sbirri, quando per l’ennesima volta li trascinano in questura. E i volti appiattiti dalla fame che fanno capolino tra le sbarre delle regie prigioni, di conseguenza. O i volti riempiti di rabbia, rigonfi, nelle liti per strada.
Lazzaro, s. m., parola nata a Napoli da genitori spagnoli e borbonici ("lazaro", lacero, miserabile), per designare la teppa o proletariato urbano miserello e perlopiù disoccupato. Da cui "lazzarone".
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