domenica 14 novembre 2010

Latta

Non molto lontano di qui c’è una città tutta fatta di latta. Le strade, i campi, gli alberi e i palazzi hanno la rigidità grigia della lamiera, il paesaggio appare come un insieme caotico di linee diritte, parallele o perpendicolari, dai colori monotoni: una serie infinita di rettangoli e quadrati pressoché indistinguibili. Non che tutto questo sia costruito nel nome della praticità, o di una essenzialità rivolta al bello; anzi pare quasi sciatteria: un qualcosa che sia stato creato distrattamente, senza inventiva ma anche senza un fine, un piano in grado di portare ordine e coesione. E in questo paese di latta gli uomini pure sono di latta. Mi spiego: sono uomini normali, hanno mogli e case e figli e cani; ogni mattina si alzano, si lavano, si fanno la barba, bevono il caffè; lavorano, chi più chi meno, proprio come se fossero di carne vera. E crescono e invecchiano, perdono poco per volta i sogni e i capelli (impalpabili fili rigidi e grigi, che appena cadono vengono spazzati via da un vento che si direbbe pure metallico); e parlano poi, con voci forse un po’ troppo stentoree ma quasi indistinguibili dalle nostre: pronunciano frasi solite, trite e ritrite: la loro lingua, come i loro pensieri e la loro anima, è priva di vera vita, non fa che ripetere meccanicamente azioni e parole già viste, regolate come da ingranaggi. E i loro atti e le loro scelte sono come i paesaggi del loro paese: rigidi e artificiali senza essere ordinati: come la materia che li costituisce, dura e malleabile, fredda e priva di vita ma capace di tagliare come un coltello, se spezzata.
Ora immagina un essere umano normale, come te, lettore o lettrice, che per avventura finisca a vivere in questa contrada di latta: cosa in verità per niente inverosimile, poiché per quanto strano possa sembrare i confini di questo paese sono labili e indistinti, e come ho già detto non lontani da qui. Insomma, immaginiamo un uomo qualunque che inconsapevolmente si trasferisca in mezzo agli uomini di latta; probabilmente non farà fatica ad accorgersi dell’errore: insomma, dopo aver trovato un alloggio e un lavoro, si guarderà un po’ intorno, cercherà delle amicizie e magari degli amori; come è solito e normale, manco a dirlo; ma alle sue parole risponderà solo il suono sordo della latta. Gli uomini e le donne di latta sono capacissimi di relazionarsi tra loro, ma solo tra loro: i loro rapporti si svolgono entro rigide regole di tipo prettamente meccanico, che vanno imparate nel dettaglio e applicate se si vuole stabilire una qualsiasi comunicazione; una macchina non è in grado di reagire se riceve l’input sbagliato, e tentare di avvicinarsi con approcci insoliti darà vita solo a urti, rumore e banali ammaccature. L’Uomo di carne sperduto in mezzo agli uomini di latta si troverà dunque di fronte a un bivio: mollare tutto e scappare via, tornandosene da dove era venuto, oppure restare. E di nuovo, questa seconda ipotesi non è tanto inverosimile quanto a prima vista può sembrare: gli uomini di latta seppur privi di quel che sia chiama umanità non sono certo aggressivi, nemmeno minacciosi; fanno addirittura un po’ pena nella loro mediocre prevedibilità; e il nostro Uomo che ha tanto faticato a trovarsi una sistemazione in questo posto, dovrebbe subito rinunciare a sfruttarla almeno per un po’? fuggire come un perseguitato da questi innocui bambocci metallici, coi quali in fondo basta essere educati per non avere guai (nessuno dei guai che è fin troppo facile incontrare camminando tra uomini di carne, dotati di passioni)?
Insomma, Uomo molto ragionevolmente decide di fermarsi a vivere qui, almeno per un po’. All’inizio di certo è molto difficile: non ci si può lasciare andare, con queste macchine; non si può essere del tutto sinceri, perché gli argomenti estranei ai loro meccanismi sono sistematicamente fraintesi o ignorati; ogni comunicazione diventa addirittura artificiosa, completamente determinata e irrigidita dal codice. Le sere invernali (era infatti quasi capodanno quando il nostro si è trovato impiego e casa qui) Uomo le trascorre a spasso per strade monotone e grigie, scandite a intervalli regolari dai coni di luce dei lampioni. Un’angoscia irresistibile lo prende, al pensiero del vuoto che ovunque lo circonda, delle marionette e maschere che occupano tutto lo spazio intorno a lui, senza via di scampo. Ma è impossibile per chiunque vivere a lungo in preda a un simile sentimento: o se ne fugge la causa, o è l’angoscia a fuggire misteriosamente dalla nostra anima; e questo credo sia il maggiore dei poteri dell’abitudine. Uomo gradualmente si abitua: stringe la mano e sorride, e la stretta e la forma delle sue labbra imparano a mimare, a imitare nel dettaglio i gesti degli uomini di latta; all’inizio nemmeno se ne accorge, poi se ne stupisce, poi ci prova gusto: è come un gioco, una partita a scacchi, qualunque frase o azione determina automaticamente una gamma di risposte; come una danza complessa ma vacua, con un che di affascinante. Ormai si è in marzo, i giorni si allungano ma sembrano passare più rapidi; Uomo conosce ormai molti uomini di latta, e pur sapendo che non per questo è meno solo, non si sente più come ai primi tempi; le settimane adesso si accavallano, la primavera e l’estate si sovrappongono, è sorprendente la velocità con cui il tempo sa scorrere su una vita sedentaria, e sorprendente è l’erosione che la superficie glabra di una tale vita più riportarne; il sorriso di Uomo è ormai quello di un uomo di latta anche quando incontra, di rado, qualche vecchio amico; e a fatica il nostro eroe se ne accorge, e si corregge, mentre i suoi compagni cercano di decifrare la bizzarra, nuova inespressività del suo volto.
Come niente arriva agosto; Uomo non va in vacanza, quest’anno stranamente non ne ha voglia –pur amando viaggiare, di solito; rimane in mezzo agli uomini di latta, a lavorare pigramente (non esiste mestiere, in questa terra, che non sia monotono; e perlopiù non si trovano lavori che rendano gli uomini esausti nel corpo, bensì nella mente: torpore e non fatica, non vera stanchezza) e a scacciare le zanzare (pure esse metalliche, ci credete?); ma non si annoia neanche più, ci ha fatto davvero l’abitudine; addirittura, prova una sorta di autocompiacimento divertito nell’andare al bar, divertirsi un po’ con i suoi coetanei di latta, seguire il filo prevedibile di ogni loro pensiero o discussione. Se la primavera è passata in fretta, l’autunno scorre velocità folle; all’inizio di dicembre il dilemma di Uomo torna: è ormai quasi un anno che vivo qui, che fare? non mi sento stanco di questo luogo, qui non soffro, eppure...Uomo non se lo sa spiegare; sente forse un vuoto grigio, una sensazione indefinibile ma costante, come il vago sapore di ruggine di certe vecchie posate; sintomo di chissà che cosa. Infine, decide di non muoversi almeno per qualche mese: la situazione stabile e monotona che si è venuta a creare gli permette almeno di pensare tranquillamente e non fare errori.
Finchè una mattina, poco dopo capodanno, Uomo come ogni giorno si alza, si lava, si rade, beve il caffè, va a lavorare, e tornato a casa la sera si scopre ormai di latta.

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