Alla prima parte: http://versomezzanotte.blogspot.com/2012/03/il-soggetto-1.html
Ora, capitò che si dovesse rieleggere il potestà. In quella piccola città di provincia, era praticamente una formalità: le elezioni si tenevano ogni sei anni, il nostro era già al terzo mandato (non c’erano limitazioni) ed era conosciuto da tutti come “persona onesta” che non dava fastidio a nessuno e non aveva nella testa la pericolosissima “idea di voler cambiare il mondo”, non faceva domande e rivoluzioni, ed era ben disponibile a compiere con massima cura il suo lavoro: che era di fare nulla, degnandosi quotidianamente di apporre qualche firma. Era in sostanza l’uomo che girava la manovella della macchina burocratica locale, continuamente, senza grande sforzo, per fare sì che il corso degli anni non si facesse avvertire più di tanto,e tutti restassero più o meno felici e contenti. Nonostante la certezza di vincere (l’altro candidato era un pirla,un perfetto sconosciuto di quelli che “solo sua madre lo vota”) per rispettare tutto il cerimoniale delle elezioni il potestà fece incollare in giro per il paese, accanto ai necrologi e alle locandine delle orchestre di liscio, un po’ di manifesti con sopra il suo nome e la sua faccia. Erano dei brutti manifesti, dei manifesti mediocri, adatti in tutto e per tutto alla circostanza. Su uno sfondo giallo-isterico si stagliava il suo volto ipocrita, il cui sorriso pulito fino all’inverosimile attraversava una buona metà della larghezza della carta. In un angolo, il simbolo del Partito, azzurro e verde e bianco e rosso, minuscolo e variopinto nella sua inutilità; nessuna frase, solo nome e cognome del potestà, peraltro ormai ben conosciuti da tutti.
Un giorno il soggetto in questione, perso nei suoi vagabondaggi, si trovò davanti una delle bacheche della città, ricoperta, oltre allo strato di locandine e annunci ormai troppo stinti e consunti per poter avere significato, di quei manifesti elettorali. Sui pannelli di legno vecchio, ammuffito e costellato di buchi e puntine arrugginite, la fila di sguardi occhialuti del potestà si stendeva monotona. Uno dopo l’altro, come una fila di soldati, quei sorrisi beceri e finti fissavano il vuoto dal nulla giallo acceso della carta in cui erano intrappolati: sembravano tendersi verso l’esterno, verso la fuga nel mondo di fuori. Fuori però c’era il soggetto. Ebbene, osservò per un mezzo minuto i manifesti elettorali. Poi raccattò da terra un pezzo di carbone, si guardò accuratamente intorno, e si avvicinò alla prima immagine della fila. Non c’era nessuno per la strada. Il sorriso spalancato del potestà assumeva, nella gigantografia, una dimensione sproporzionata. Quei manifesti, quelle foto che faceva attaccare in giro, non è che fossero particolarmente grandi, ma per qualche ragione l’insensata corona di denti vi appariva gigantesca, troppo grande anche per il faccione del potestà. Gli incisivi, gli incisivi in particolare: saranno stati larghi almeno tre o quattro dita: larghi come un pezzo di carbone.
Il soggetto in questione, dopo un ultimo sguardo intorno, lasciò perdere la cautela e sfregò l’incisivo sinistro del potestà fino a renderlo completamente nero. Quella faccia stereotipata e linda assunse l’aspetto becero di un ragazzino sorridente che si sia appena preso un cazzotto nei denti e non ne abbia ancora preso atto; di un beone appena uscito da una rissa, che per la sbronza non sente il dolore. Talmente ridicolo da far ghignare, poi scoppiare a ridere il soggetto in questione. Che, dopo aver lanciato il pezzo di carbone in un’aiuola, se ne andò.
Prima che fosse sera, qualcuno notò il sensazionale atto vandalico. Il potestà ne fu informato, e la mattina dopo mandò un inserviente a incollare sul manifesto deturpato una nuova immagine: così la fila tornò a fare mostra in bell’ordine della propria inutilità. Peccato che l’assassino torni sempre sul luogo del delitto: anche quel giorno, anzi forse proprio per curiosità di rivedere la sua opera, il soggetto in questione si trovò a passare per quella via e si accorse dell’avvenuta sostituzione. Ridacchiò: non si aspettava una reazione così pronta. Cercò un altro pezzo di carbone,e raddoppiano gli sguardi e la prudenza annerì di nuovo lo stesso dente della stessa prima immagine che era stata vittima il giorno precedente.
Gli abitanti di quel paese, come tutti i provinciali, in fondo, nascondevano una certa arguzia sotto una pesante maschera di apparente ignoranza, di immobilismo. O meglio, forse erano veramente ignoranti: ma ignoranti dell’apparenza, del gusto raffinato dei cittadini, fatto di convenzioni e abitudini. Non ignoravano invece la vita, e perciò possedevano un umorismo sardonico e pesante, poco disposto a risparmiare i soggetti facili. La mattina dopo era domenica, una bella domenica umida d’aprile, e il potestà in persona stava facendo una passeggiata a piedi; pensò di passare proprio per la via dove il suo volto aveva ricevuto l’affronto. Ci rimase quasi secco, quando vide la solita prima immagine della fila: non solo il suo incisivo sinistro era sparito sotto uno strato nero di carbone, ma qualcun altro aveva aggiunto – e con vernice e pennello, mica solo a carbone! – aveva aggiunto un bel paio di corna diritte! E aveva scritto, sulla sua fronte: Giocondo: a caratteri cubitali. Immediatamente “dette disposizioni affinché” l’onta fosse lavata con la cancellazione immediata di quei segni di inciviltà. Un manifesto nuovo di pacca fu incollato sopra allo scempio.
Quell’imbecille del potestà non mancava, nel suo piccolo, di essere una persona presuntuosa. L’”onore” era di fatto la parte più vulnerabile della sua persona. Fu per questo che lunedì mattina si recò di nuovo, nel suo orario d’ufficio, a controllare di persona che tutto fosse in ordine. Il potestà passò poco prima di mezzogiorno – erano le prime giornate calde, l’aria stessa ormai aveva iniziato a trasmettere segnali di vita verdi, decisi. Fu con soddisfazione che constatò che i vandali non si erano presentati dal giorno precedente, e se ne andò a fare “colazione” alla trattoria che suo fratello gestiva in un vicolo del centro.
Mentre il potestà sfogliava il menù, appoggiato alla tovaglia a quadri di un solido tavolo nel suo ristorante preferito, sentì distrattamente suonare la campana della scuola pubblica locale, a qualche isolato di distanza. Era il segnale della fine della giornata di scuola. I ragazzini delle varie classi invasero le vie della cittadina: tra questi, c’era la quarta classe del ginnasio, la penultima. La classe del soggetto in questione. Una volta uscito, il ragazzo non andò subito a mangiare (c’era abituato, sopportava la fame). In compenso fece un lungo giro per le vie silenziose, svuotate dall’ora di pranzo. Dopo aver vagabondato per una ventina di minuti, si diresse nel luogo che ben sappiamo. Fin dal mattino aveva badato a procurarsi un pezzo di carbone, per non doverlo cercare sul posto. Una volta arrivato presso la fila di manifesti, si avvicinò per l’ennesima volta al primo. E via, ormai era un atto facile: la circospezione non lo rallentava, quasi in automatico era in grado di annerire il dentone, l’incisivo sinistro del potestà. Ghignando, per la quarta volta il soggetto in questione se ne tornò verso casa.
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