giovedì 7 giugno 2012

Commento a Virginia Woolf, The Mark On the Wall


 E già che ci siete leggetevelo, il racconto, che male non fa: http://www.bartleby.com/85/8.html

Nel racconto The Mark On the Wall, apparso per la prima volta nel 1917 e poi incluso nella raccolta Monday or Tuesday del 1921, appaiono già, in nuce, alcuni di quelli che saranno i caratteri più pregnanti della prosa di Woolf saggista e narratrice.
Nello stesso inizio ex abrupto del racconto è già riconoscibile uno dei tipici marchi di fabbrica della scrittrice. A partire da un dato materiale apparentemente futile si sviluppa una descrizione dell’ambiente, ma è proprio l’inconsistenza del pretesto – talmente vacuo che, per tentare di ricordare la data dell’avvenimento, Woolf deve ispezionare dettagliatamente i dati rimasti nella sua memoria – a dare vita a tale descrizione. E, dalla stanza invernale descritta perlopiù attraverso impressioni cromatiche e piccoli dettagli, l’attenzione fa presto ad allargarsi, con andatura tipicamente woolfiana, verso spunti privi di legami palesi: “How readily our thoughts swarm upon a new object, lifting it a little way, as ants carry a blade of straw so feverishly, and then leave it...”.
La voce narrante gira intorno al segno sul muro, mescola ipotesi e ricordi – quel che è certo è che la narratrice non si alza per andare a controllare: sarebbe un atto logico, lineare, priverebbe il racconto stesso della sua ragione d’essere e sarebbe del tutto incoerente con il carattere di Woolf. Per cui la narratrice, seduta a fumare, inizia a seguire il flusso libero del suo pensiero:If that mark was made by a nail, it can’t have been for a picture, it must have been for a miniature […]. A fraud of course, for the people who had this house before us would have chosen pictures in that way—an old picture for an old room. Dal chiodo al ricordo, poi di nuovo al chiodo e ancora alla sequenza di oggetti andati perduti nel passato, un coacervo caotico di piccole cose sufficienti a gettare bagliori su uno stile di vita, sul trascorrere frenetico e travolgente del tempo: “three pale blue canisters of book-binding tools? Then there were the bird cages, the iron hoops, the steel skates, the Queen Anne coal-scuttle, the bagatelle board, the hand organ—all gone, and jewels, too […]Yes, that seems to express the rapidity of life, the perpetual waste and repair; all so casual, all so haphazard...”.
Si susseguono le teorie sulla natura del segno (“and yet that mark on the wall is not a hole at all. It may even be caused by some round black substance, such as a small rose leaf, left over from the summer) e i periodi lasciati in sospeso, a riprodurre il moto fluido, ondulatorio, del pensiero di Woolf: “I want to think quietly, calmly, spaciously, never to be interrupted, never to have to rise from my chair, to slip easily from one thing to another, without any sense of hostility, or obstacle. I want to sink deeper and deeper, away from the surface, with its hard separate facts”. Così è illustrato un procedimento conoscitivo indipendente dai dettami della logica lineare che per secoli ha dominato la storia del pensiero occidentale. Seppur apparentemente disordinata e priva di una direzione, infatti, la riflessione del racconto si orienta ben presto verso concetti di ordine estetico – diventa esposizione, o forse anche dispiegamento, di un metodo di pensiero: “the novelists in future will realize more and more the importance of these reflections, for of course there is not one reflection but an almost infinite number; those are the depths they will explore, those the phantoms they will pursue, leaving the description of reality more and more out of their stories”. Dal segno sul muro siamo arrivati a interrogarci su quale debba essere il rapporto tra realtà e letteratura, tra realtà e conoscenza, sul concetto illusorio di realtà che nasce dalle generalizzazioni e che assoggetta i procedimenti cognitivi allo stesso modo in cui lo Whitaker’s Table of Precedency impone ai soggetti regole inutili e ineludibili. E allo stesso modo in cui “the masculine point of view which governs our lives, which sets the standard” soffoca la libertà di donne e uomini imponendo rigorose gerarchie.
Il segno sul muro torna a essere chiodo e diventa una chiave per superare tutto questo – la materia, la sostanza fisica serve da appiglio per sottrarsi ad un pensiero tanto astratto da essere sterile, permette di accedere a “a world without professors or specialists or house-keepers with the profiles of policemen, a world which one could slice with one’s thought as a fish slices the water”. L’immagine del pesce – del pensiero che si muove liberamente in un elemento fluido – ricorre nel racconto e nell’opera di Woolf (ad esempio in A Room of One’s Own o nel discorso tenuto alla “London Society for Women’s Service” prima della stesura di Three Guineas). Ricompare, dopo alcuni periodi, nella fantasticheria della voce narrante, che si sofferma anche sull’albero (altra immagine tipica) come simbolo di vita e di pensiero senza vincoli.
A interrompere bruscamente il sogno dell’albero è l’intromissione del reale ordinario: una voce indeterminata riporta la narratrice alla vacuità del quotidiano, fatta di giornali e di guerra. E alla rottura, quasi casuale, del mistero del segno sul muro: che, una volta diventato chiocciola (nail>snail), una volta acquisita una natura univoca, ha esaurito il suo potenziale conoscitivo.

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