Il noto comico, giunto ormai intorno alla metà della sua carriera, poteva affermare con sicurezza di possedere una certa fama. Erano ormai lontani gli anni della gavetta, delle umiliazioni, degli spot tutti uguali; dei ruoli da comparsa nei film squallidi, delle buffonate eterne, delle smorfie e boccacce e facce da culo a cui lo costringevano le battute stantie che era tenuto a fare. Il noto comico fin dall’età di trent’anni era stato pelato come una boccia, e il suo volto ricordava alle casalinghe quello rassicurante di un mastro lindo: c’era, in quella calotta rosacea abbronzata, un qualcosa che dava automaticamente la certezza che non si sarebbe stati costretti ad ascoltare qualche discorso serio e noioso. Dalla bocca del noto comico erano sempre uscite (nella prima metà della sua carriera, almeno) solo stronzate, e ciò lo rendeva, sotto il regime di Stanislao II, uno degli attori televisivi più rispettabili, innocui e quotati.
Il re non sdegnava di incoraggiare le arti e la cultura, e in effetti il noto comico aveva diverse volte trovato del tempo, nel corso della sua carriera, per dedicarsi ai suoi progetti. Qualche film, qualche spettacolo teatrale, qualche collaborazione musicale (non era un buon cantante, no, ma tutti riconoscevano che come interprete aveva una certa verve espressiva; e poi aveva molti amici musicisti): il tutto in sordina, quasi di nascosto, in parte perché al grande pubblico quella robaccia non interessava minimamente; e poi perché, in qualche modo, tali slanci erano scoraggiati dai dirigenti della televisione. Perdite di tempo, dicevano, che portavano gli “artisti” a montarsi la testa. C’era qualcosa di ferocemente ironico nella grinta malvagia con cui i dirigenti pronunciavano la parola “artista”, parlando dei loro pupilli durante le riunioni, tra un sigaro e un bicchiere di whiskey. Per il dirigente medio, l’”artista” era una sorta di gallina dalle uova d’oro, certamente preziosissima, ma che a maggior ragione andava custodita nel pollaio: le galline fanno stupidaggini se cercano avventure; si sentivano discorsi di questo tenore, da parte dei mascelluti manager intenti a stritolare mani e sigari e a trangugiare whiskey. Al noto comico, in gioventù, certe cose le avevano dette quasi in faccia, e tra dirigenti e rappresentanti degli sponsor e opinionisti e attori più affermati di lui gli capitava di sentirsi quasi come un cuoco o un maggiordomo; il palco era l’unico posto – nonostante i copioni imbecilli, i colleghi più imbecilli e la monotonia – l’unico posto in cui ancora sentisse in sé il motivo per cui aveva scelto quella vita.
Giunto ormai a metà della sua carriera, il noto comico poteva guardarsi indietro e prendere atto degli ostacoli che aveva superato. Era economicamente indipendente –agiato, anzi; i suo nome e la sua faccia erano tanto noti che faticava a girare agevolmente per strada; e persino alcuni impresari avevano iniziato, se non proprio a rispettarlo, a degnarlo di una certa cortesia ingrigita. Quasi nessuno sapeva che lui aveva collaborato con la rock band Omissis, nota per il piglio scapestrato e bohemién, o che aveva fatto comparsa in certi film di certi registi assai poco stimati in certi ambienti vicini alla corte. Il noto comico sentiva però di avere ora la possibilità di cambiare direzione.
Si era stufato, in sostanza, di fare da lacchè. Gli sembrava di avere tutte le carte in regola per ritenersi un intellettuale. Di più: un intellettuale indipendente: colto, autentico, genuinamente impegnato – non uno di quei babbioni metafisici che si dilettano di scrivere saggi incomprensibili e romanzi che non compra nessuno, destinati alle antologie dei prossimi secoli. Voleva diventare un intellettuale critico e reattivo, schierato ma non banalmente di parte. Si fece pertanto crescere la barba, una gran barba nerogrigia che faceva da contraltare al rosa lucido del suo cranio. Cambiò abbigliamento (vestiti neri! eleganti ma originali), cambiò frequentazioni. Rifiutò di partecipare ai programmi che gli davano più pena, diradò le presenze negli spot – gesti comuni, negli attori che cominciavano a godere i frutti della fama: non suscitò scalpore. Pensò di scrivere un libro. Comprò dei maglioni, fumò la pipa. Frequentò compagnie bizzarre – non vip, non più posti e feste da vip. Sparì quasi del tutto dai circoli tradizionali e convenzionali, ma la sua fama non ne trasse svantaggio. Forse era ancora lo strascico dei passati splendori, forse l’alone di mistero rendeva ancora più efficace il suo appeal (ma questo è decisamente improbabile). Rilasciò qualche intervista, si diffuse la notizia che si lavava tre volte alla settimana, andò a vivere in una casa decorosamente umile (ma che comunque, in qualche modo, era costata milioni) nel centro di una cittadina di provincia. Partecipò come voce narrante al nuovo disco degli Omissis, conobbe stilisti, scrittori alla moda, qualche intellettuale consolidato e famoso e qualcun altro completamente ignoto. Si diede al cinema, e non più per quelle pellicole disgustose che ogni anno venivano sfornate dall’industria cinematografica nazionale: si dedicò invece a film quasi colti, ma di successo, divertenti ma ben fatti, ritmati ma colmi di significato. Divenne beniamino della critica – ci volle qualche mese, per questo – e riuscì a mantenere gran parte del prestigio presso il pubblico. Il noto comico sentiva di aver fatto un ulteriore, grande passo verso l’autorealizzazione: era libero, poteva essere felice. Gli si aprivano nuove prospettive, maglioni libri barba e pipe all’infinito – o fino alla fine. In fin dei conti era soddisfacente, dopo una vita (metà della vita, per fortuna) passata tra umiliazioni e prese per il culo.
Fu in questa disposizione d’animo che un bel giorno il noto comico (anche se ormai poteva iniziare ad aspirare ad altre denominazioni – forse persino “attore”) andò a trovare una sua prozia. Era un personaggio decisamente originale – una minuscola vecchia che sfiorava i cento anni e non aveva assolutamente niente a che vedere con quelle creature semi-mummificate e puzzolenti d’aglio che nell’immaginario collettivo erano le nonnine, ingobbite, cieche come talpe, vestite di vecchie pellicce tarmate. La prozia del vecchio comico, sorella minore della nonna materna, camminava con fatica ma ben ritta, vestiva e mangiava decorosamente (anzi, da persona a modo), e andava in giro con un paio di rayban che nascondevano uno sguardo lucido e grigio azzurro, penetrante e invernale ma non freddo. Parlava bene la lingua corrente e leggeva ancora – le sue coetanee, a quanto ne sapeva il pronipote, avevano cervelli lignei e si esprimevano esclusivamente in dialetti biascicati e incomprensibili. Il noto comico aveva ricevuto da lei un appoggio fondamentale negli anni più bui della sua gioventù – la prozia era stata l’unica, tra i parenti vicini e lontani, a non disprezzare le sue scelte, pur non capendole appieno. Era arrivata persino ad offrirgli del denaro nei momenti peggiori.
La prozia viveva in una cittadina vecchiotta e provinciale, a poche miglia dalla tranquilla residenza del pronipote. Era una regione dagli abitanti discreti, quasi mai avevano importunato il noto comico, che quindi poteva permettersi, nonostante la fama, di andarsene in giro da solo e quasi indisturbato, come una persona qualunque. Scelse comunque, per andare a trovare la prozia, una domenica mattina. Era una bella domenica di sole, il noto comico percorse le strade di campagna, libere e senza un’anima, sentendosi pervadere da una serenità sempre crescente. Arrivò, parcheggiò, scese dalla macchina e raggiunse la casa – un piccolo alloggio in uno di quei caseggiati dove sembra che nulla possa succedere, mai. Fu accolto da un sorriso grande, e la zia gli pizzicò la guancia come se fosse stato ancora un ragazzino. Si era tolta i rayban. Chiacchierarono del più del meno – era bello, con lei: ritrovarla dopo mesi era come averla vista il giorno prima, praticamente nulla sembrava mai increspare lo stagno della sua pace, profumato di lavanda e di quelle innumerevoli cose misteriose che finiscono per dare un odore inconfondibile ai vecchi armadi della nostra infanzia. Dopo una mezz’ora, il noto comico sentì la necessità di andare al cesso.
Era un placido marmoreo cesso. La tazza era vicino alla finestra –sul davanzale, un pila di stupide riviste settimanali, riviste di gossip; il noto comico accettava e perdonava quella debolezza attribuendola alla vecchiaia della zia, certo non le si poteva rimproverare di essere una sciocca – anzi era eccezionalmente lucida per la sua età, poco male se si dedicava ogni tanto a quelle piccole idiozie; e in realtà, una volta, persino lui le leggeva: non più da quando aveva iniziato a darsi un tono. Il noto comico diede uno sguardo al paesaggio dalla finestra – il tetto di un’officina, qualche piccolo frutteto, un fossato e dei condomini, un paesaggio assolutamente ordinario, ma per lui eccezionalmente significativo e caro, lo conosceva da decenni e lo aveva visto cambiare… poi si sedette, grugnì, sospirò e prese la prima rivista della pila.
La sfogliò senza curiosità – o meglio, con l’unico scopo di soddisfare la breve e pigra curiosità del momento. Erano pagine patinate, dai colori sgargianti, rigonfie di pubblicità e foto e titoli eclatanti dedicati a fatti vacui e squallidi. A un certo punto, il noto comico notò in un titolo cubitale niente meno che il suo nome: era qualcosa riguardante un suo presunto flirt con una collega più giovane che nemmeno conosceva, o forse che aveva visto una o due volte, tanto tempo prima. Il noto comico abbozzò un mezzo sorriso per la scempiaggine di tutta la faccenda, era tra l’imbarazzato e il seccato – e lo intimoriva quasi la capacità dei cronisti di costruire trame sul nulla. Alla sua “storia” con la trentenne attrice ***** era dedicato un servizio bello lungo, abbellito da varie foto e alcune mini-interviste a certi guitti del mondo dello spettacolo, gente sempre capace di inventare ciance. Il noto comico voltò pagina, l’articolo proseguiva… a un certo punto, dal foglio il suo stesso volto gli restituì lo sguardo: era una foto di repertorio che lo raffigurava, scattata forse cinque o sei anni prima.
Era una piccola foto quadrata – il suo viso ne occupava quasi tutta l’ampiezza. Era abbronzato, quando l’avevano scattata, e aveva indosso un sorriso finto – la carta patinata e lucida sembrava sudare, il colore della sua faccia nella foto era di un rosso oltraggioso che ricordava le pagine della schifosa rivista. Il noto comico non riusciva a ricordare a quale occasione risalisse la foto, ma si sentì a un tratto risucchiato nel mondo putrido dei party e dei fotografi dei giornali. Sentì che quel mondo, quella palude di mondo, era il suo luogo di nascita, e della propria nascita non ci si sbarazza. Sentì che per milioni di persone, nonostante la barba, il teatro, gli Omissis, il nuovo cinema, la catasta di pipe e libri e maglioni, sarebbe rimasto il mastro lindo rassicurante delle pubblicità e dei film di Natale – che la sua faccia, nella cornice idiota di una rivista di gossip, restava l’immagine riconoscibile e quotidiana di un volto corretto, di regime, senza possibilità di fuga o riscatto. Il noto comico era un’immagine, non una persona; e forse lo era sempre stato. Tirò l’acqua.
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