Non ci tornavo da anni, e quella volta per caso mi trovai a passarci vicino. Era un quartiere dove anni prima – in un’epoca che ormai mi sembrava lontanissima – ero solito andare a suonare, in una cantina. Una zona periferica, simile probabilmente a tante altre; per me non lo era. Camminavo nel viale di tigli all’ingresso di una biblioteca da quelle parti, dove mi era capitato di dover andare, e mi venne in mente di farmi in giro fino alla vecchia sala prove. Era a qualche isolato di distanza, avevo del tempo – era tardo pomeriggio, gli impegni della giornata erano finiti. Mi incamminai quindi, senza un preciso scopo, verso quella cantina – il tizio che ci faceva suonare lì era stato sfrattato perché era senza soldi, per questo avevo smesso di frequentare la zona.
Era una direzione insolita, per arrivarci. Ero abituato, una volta, a raggiungere il posto in pullman, con la pesante custodia del mio strumento accanto. Questa volta ci arrivavo a piedi, e da un’altra direzione, per una via circondata da condomini, abbastanza spoglia e monotona – questa sì, davvero uguale a mille altre. Il quartiere si era riempito di stranieri, mi sembrò: molti di più rispetto a qualche anno prima. C’era una donna dell’est che chiacchierava al cellulare, affacciata al primo piano di fronte al tramonto e ai palazzi lontani. Un uomo sulla sessantina che avrebbe potuto essere vietnamita, o comunque di quella parte del mondo; sulla porta di un’officina, con indosso una tuta blu macchiata d’olio nero, scherzava con una bambina di forse cinque anni. E infine anche un mio connazionale, anche lui intento a parlare al telefono, mentre frugava in un cassonetto estraendone lunghi cavi colorati, e qualche altro oggetto forse utile che disponeva con cura lungo il marciapiede. Aveva usato un pezzo di ferro per bloccare il coperchio del cassone e tenerlo aperto.
Raggiunsi il corso alberato dove passava il bus che una volta usavo per tornare a casa dalle prove. Dall’incrocio dove mi ero fermato riuscivo a intravedere di sbieco il parchetto di fronte all’ingresso della cantina – era, quest’ultimo, in un minuscolo cortile; una ripida rampa di cemento che scendeva verso quello che un tempo era stato indubbiamente un garage. Avevo sentito dire che adesso ci si era installata un’opera pia, o qualche stronzata simile. Il giardino pubblico lì davanti era frequentato da vecchi, da rumorosi bambini, e da qualche gruppetto di adolescenti inquieti e molesti; non c’erano giostre, non giochi come in molti giardinetti, solo certi grandi alberi che non avevo mai saputo riconoscere, una fitta siepe per confine su tre lati, e un vialetto costellato da panchine. A volte andavamo lì a fumarci uno spinello, dopo le prove più impegnative e le sedute di registrazione. Oppure mi capitava di andarci da solo, ad aspettare seduto su una panchina, quando arrivavo in anticipo e giù in cantina non c’era ancora nessuno.
Da dov’ero arrivato potevo vedere bene le cime di quegli alberi, dorate nel tramonto. Mi guardai intorno: mi venne in mente il sentiero spesso fangoso, sotto i castagni del viale, che bisognava percorrere per arrivare alla fermata più comoda, a un isolato e mezzo da lì. Ora ne avevano aggiunta una più vicina, e avevano costruito un marciapiede e una nuova pensilina, larga e lunga, col pavimento in asfalto – una volta era sterrata e così stretta che, nelle sere d’inverno, seduto alla panchina della fermata, bastava allungare i piedi e dare un calcio ai blocchi di ghiaccio che c’erano sul bordo della strada per farli finire in mezzo alla carreggiata, e vederli trasformare dall’impatto con una macchina ai settanta all’ora in nuvole cristalline effimere e brillanti, che in molto meno di un secondo si sarebbero dissolte nel buio.
Sfrecciò davanti a me un bus che mi avrebbe portato rapidamente a casa – e passava di rado. Senza pensare corsi alla fermata e salii a bordo. Non tornai mai più alla cantina.
Maggio ‘12
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