Il cortile del minuscolo condominio era una folla immobile di passeggini, biciclettine, persino un monopattinino con quattro piccole ruote: comune denominatore era la neve ghiacciata che tutto ricopriva. C'era una poltrona a dondolo con su un materassino che il gelo aveva condotto a possedere la consistenza del marmo, un piumino congelato su di uno stendino. Sulla parete più lontana dalla strada, in alto, era installata una telecamera della Securitate. Il suo occhio vigile si spostava con movimenti brevi, spasmodici, da un lato all'altro del cortile; pareva l'unica cosa veramente viva. In un angolo asciutto attendeva immobile il figlio dell'architetto, vicino a un canestro da basket col suo sostegno di plastica.
Il furgone dell'elettricista sbuffò, sgommò e si arrampicò sul ghiaccio per riuscire ad accostarsi e a posteggiare, e il figlio dell'architetto andò ad aprire il cancello del cortile. Fecero due chiacchiere nel gelo, raggiunsero la porta di legno fradicio del sottoscala e si accorsero che quella specie di grotta era stata trasformata dai bambini del condominio in un deposito. Il terreno era ricoperto da palloni da calcio, da volley, da basket, anche uno da rugby, bianco, di fronte alla porta e in mezzo alla stanza. Alla parete destra erano appoggiati degli skate, messi in fila come in una inesistente rastrelliera, mentre il fondo, più largo, era un intrico di biciclette appoggiate a alcuni strati sovrapposti di scatoloni fatti a pezzi e pannelli di compensato mezzi sgretolati; a sinistra, lungo tutta la parete, i contatori, aureolati da un intrico di cavi e fili e collegamenti più o meno provvisori, e matasse di ragnatele ricoperte di polvere.
C'era una sola cosa che all'elettricista faceva più schifo delle ragnatele e della polvere: erano le ragnatele coperte di polvere. Brandelli di buio etereo ma appiccicoso e condensato, come stracciato da unghie di strega, capace solo più di pendere inerte da quel muro di cemento incrostato di salnitro biancastro – mentre il buio, altre volte, è capace di grandi cose. Bisognava tirare fuori una tripla dal pannello dei servizi generali e collegare (ehm, provvisoriamente) il contatore di un appartamento, per cui l'elettricista con gesti giudiziosi aprì la sua cassetta degli attrezzi – non la teneva chiusa a chiave, in realtà – ed iniziò ad armeggiare cercando di capire se ci fosse il salvavita inserito. Poi tentò di districarsi tra le dozzine di cavi neri e irrigiditi che attraversavano lo stretto spazio del sottoscala. Pensava ad alta voce le sue azioni, per non congelarsi e per rendere partecipe il figlio dell'architetto, in qualche maniera. Ma quello se ne fregava, lì dietro in piedi con le mani in tasca. Era difficile muoversi in quel minuscolo labirinto di buio, cavi e giocattoli abbandonati. Il tecnico sovrappensiero disse a mezza voce: Bisognerebbe trovare la via più semplice, più rapida insomma, meno complicata. Anche gli elettricisti conoscono l'arte dell'endiadi, pensò il figlio dell'architetto.
Faceva un freddo perfido, nel minuscolo condominio. Erano alloggi da poveri. Pochi minuti dopo che le voci dell'elettricista e del figlio dell'architetto iniziarono a echeggiare tra le mura del cortiletto, una porta al piano terra si socchiuse; ne uscì, per meno di uno secondo, uno sguardo azzurro affilato di ragazza. L'elettricista la scorse, fece una smorfia. Il figlio dell'architetto era troppo occupato a tenersi le mani in tasca, la telecamera in quell'istante era girata.
Bastarono pochi minuti per finire quello stupido collegamento. Il figlio dell'architetto se ne andò a piedi, dopo aver accompagnato fuori l'elettricista e dopo averlo congedato con qualche parola svelta, che si gelò in fretta nell'aria. Entrato nel furgone, l’elettricista aspettò ancora qualche minuto. Le strade erano vuote, quella mattina. L’elettricista scese. L’unico movimento era quello dell’occhio elettronico della Securitate. L’elettricista ne aggirò la visuale, percorrendo a piedi una lunga deviazione che lo portò, attraverso una sterrata piena di neve, a raggiungere il condominio dal retro. Bussò ripetutamente a una porta di servizio. Da quel lato non c’erano telecamere. Ci volle qualche secondo, ma la porta si aprì lasciando uscire lo stesso sguardo di prima, lo sguardo affilato della ragazza. Sulla soglia, l’elettricista aprì con la stessa calma di pochi minuti prima la sua cassetta degli attrezzi e sorrise alla ragazza. Attento, disse lei preoccupata, guardando i balconi vuoti dei condomini di fronte, ben più grandi e silenziosi e freddi quanto il suo. Lui sbuffò e aprì il doppiofondo della cassetta. Tra i cacciavite e le pinze spiccava il colore della copertina di un libro, un colore proibito. Lo passò rapidamente alla ragazza. Per i soldi? chiese l’elettricista, e poi capì: cercherò di ripassare, disse, e ne andò.
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