mercoledì 29 giugno 2011

Notizie dal fronte IV

È lì che me ne accorsi. Ero in mezzo ai lazzari affamati, urlanti – Pane, pane! Non mi era mai capitato prima: di solito stavo alla larga dalle risse, mai piaciuti i manganelli né i lacrimogeni né i sampietrini. E invece quella volta eccomi in prima fila, come se la cazzo di transenna metallica che proteggeva l’ingresso del palazzo fosse stata una calamita, non so perché. A un metro da me, oltre la transenna, nell’ombra dei portici scuri davanti al palazzo del Governatore, la parete di facce da poliziotto. È lì che me ne accorsi: le facce dei lazzari spalancate dalla rabbia, le facce degli sbirri pinzate tra gli scudi e i luridi berretti baschi: facce uguali: stesse occhiaie bistrattate, frustate-frustrate dalla miseranda vita (mio fratello è figlio unico perché non ha mai trovato il coraggio di operarsi al fegato e non ha mai pagato per fare l'amore e non ha mai vinto un premio aziendale), stessi occhi sciolti nell’afa bollente della calca, degli stivaloni, di un pomeriggio privo di direzione e di significato. In mezzo alla folla un vagabondo sollevò una bottiglia di limoncello, le urla pure iniziavano a squagliarsi nel caldo umido, un poliziotto rise al telefono, gli altri mollarono gli scudi e si appoggiarono alla transenna e lo stesso fecero i lazzari, troppo esausti per gridare ancora; in mezzo al casino spuntò qualche faccia conosciuta: attaccai a chiacchierare. Lo stesso sguardo, nelle facce dei lazzari e degli sbirri: che questione imbarazzante, mentre il Governatore senza dubbio teneva banco ancora una volta al Consiglio. Un’impiegata di palazzo si sporse dal balcone con una macchina fotografica, suscitando cori di insulti e atti osceni in luogo pubblico. Ma la tensione stava definitivamente calando. Qualcuno si sedette sul paraurti di un tram bloccato dalla calca, l’autista scampanellò assordandolo e facendolo sobbalzare tra le risate della piazza. Il corteo capì che sarebbe morto se non avesse ricominciato a muoversi,e si pensò di andare alla stazione. A fatica il gracchiare di un megafono fece alzare la gente che si era seduta, un grappolo di caschi blu si defilò dall’ombra, sotto un fuoco di grida di scherno. Gli uomini in uniforme, stanchi e sudati, accatastarono gli scudi nei bagagliai di tre o quattro automobili scalcagnate e anonime e se ne andarono a proteggere qualche altro posto. Noi ci incamminammo nella polvere, sotto il sole; giravano bottiglie e sorrisi, e qualche slogan stanco. Passando sotto una caserma, cadetti affacciati; grida – Buttati! Merde! E le finestre a chiudersi. Mi accorsi che alcuni poliziotti, che ci precedevano di una cinquantina di metri, avvisarono delle donne in uniforme del corteo in arrivo, e quelle se la svignarono in una via laterale. Arrivammo infine alla stazione,e ci fermammo lì davanti fermando macchine, carrozze, tram. Non sapevamo se entrare, non sapevamo quanta polizia c’era dentro. Il corteo si spiaggiò nel piazzale lì davanti, si rannicchiò come un rospo, i vagabondi della stazione si avvicinarono a punzecchiarlo incuriositi. Ci ripensai, agli sguardi identici: gli identici sguardi dei berretti baschi e delle urla arruffate, tutti insieme aggrappati alla schifosa transenna come se fosse l’unica cosa che, in quel momento, ci teneva appesi alla realtà.

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