Il Nano, quel nano maledetto.
Ricopriva la carica di Primo Consigliere del re e, vista la completa imbecillità del suo diretto (e unico) superiore, era di gran lunga l’uomo più potente all’interno delle istituzioni. Lo sapevano tutti, lo si sapeva bene, che in realtà i complessissimi ingranaggi della Nazione e della Società erano mossi da ben altri oscuri personaggi. Ma il Nano rimaneva influente. Era un simbolo, ma di natura diversa dal re. Il re era come un vecchio gonfalone appeso in una sala di palazzo; certo, aveva uno stuolo di maggiordomi incaricati di tenere alla larga tarme, ragnatele e paparazzi, ma la sua utilità e il suo potere erano del tutto trascurabili. Era solo il simbolo di una cosa morta, di una grandezza passata e irrecuperabile, incensata nei vocabolari araldici ma dimenticata dal mondo e dalle cose: ormai tagliata fuori dal flusso delle cause e delle concause da cui si genera “il ritmo strano della vita”. E invece il Nano era simbolo della “grandezza” presente, cioè della miserabile capacità di ricavare la maggiore ricchezza con il minore sforzo possibile. Con tutti i mezzi, ovviamente: non esiste legalità o morale che tenga quando l’unica cosa sacra è il porco denaro. Che può anche essere lurido, ma non puzza mai. Il nano pervenne al suo ruolo per vie impreviste, impervie ed ignorate, facendo il parassita, impossessandosi di ruoli sempre meno trascurabili, nutrendo piccole clientele fino a fondare un suo personale potentato. La sua figura compatta, grassottella e tappa (non era un vero nano, era solo bassino), il suo cognome alacre e borghese tipico della città più alacre e borghese della nazione, sembravano fatti apposta per permettergli di sgusciare indenne dagli intrighi di corte; e ora si poteva immaginarlo a zompare in libertà tra diplomatici e presidenti stranieri, collezionando figuracce infami. Era davvero odioso, un simbolo odioso di un potere pervertito – e “non esistono poteri buoni”, figurarsi un potere talmente corrotto da intralciarsi da solo, con un simile indegno approfittatore al suo vertice: una vera schifezza.
Ora, S. F. era un ragazzo taciturno.
Tendente alla solitudine, quasi sempre serio, leggeva parecchio e pensava di più. E parlava quasi niente, ma ciononostante a tutti noi era sempre sembrato un tipo a posto. Non avevamo davvero idea di cosa sarebbe successo.
Lo conoscevamo poco – difficile poter dire di conoscerlo d’altronde – ma probabilmente eravamo le persone con le quali aveva maggiore confidenza. Sì, ci vedevamo a lavoro. Ogni tanto, nel parlare, si lasciava andare a un sorriso dolorante, vacuo, ma quasi mai rispondeva alle battute. Nessuno lo sfotteva però, aveva l’aria troppo triste, e poi siamo sempre stati persone serie anche noi altri. Faceva il suo lavoro con perizia e precisione, impuntandosi talvolta con insistenza su qualche particolare trascurabile, ma sempre con discrezione, e senza mai causare problemi.
E, insomma , quando iniziò a frequentare il poligono di tiro non lo raccontò a nessuno. Sì, si iscrisse a una di quelle… sezioni del tiro a segno nazionale, ecco. A noi non importava nulla, figurarsi, poteva anche dircelo. Insomma, si sbattè per prendere una licenza di porto d’armi per uso sportivo. Me lo immagino, a caricare la pistola e prendere la mira tutto preciso, intento, in mezzo ai fanatici del tiro al piattello e ai rudi pistoleri di provincia coi loro abiti paramilitari. Probabilmente furono duri con lui, per le sue braccia magre e i suoi vestiti usati da fratellino minore. Non so quanto tempo ci mise, a conquistarsi il rispetto degli energumeni, ma di certo diventò un discreto tiratore.
Poi cominciò ad andare ai comizi. Un paio di volte anche fino alla capitale. E sospetto che qualche volta si assentò pure da lavoro, per fare ‘ste trasferte. E iniziò a seguire i politici, i ministri. Anche il Nano. A chiedere l’autografo. Qualche idiota c’era sempre, a fare cose del genere: i fan sfegatati del Governo. Mezzi maniaci. E S. F. si mischiò con quella gente: gli uomini delle scorte, i gorilla, presero a riconoscerlo, a parlarci. Credo lo trattassero come un demente, me li immagino a ridacchiare dopo che lui aveva salutato estasiato il ladrone di turno. Ottenne pian piano la loro fiducia, di sicuro, probabilmente perché nessuno di loro lo guardò mai negli occhi. Io invece a volte lo facevo.
Fu a un grande comizio, come ce n’è tanti. Un comizio del Nano nella sua città natale. S. F. c’era.
S. F. si era abituato ad andare ai comizi con la pistola sotto il braccio, in una fondina nascosta che si era comprato in qualche negozio da sbirri di quelli che aveva iniziato a frequentare da quando andava al poligono. E mentre porgeva la mano a un ministro o a un consigliere o a un segretario, mentre ammiccava entusiasta alle guardie giurate della scorta, beh, aveva quell’acciaio freddo sotto l’ascella. Ci si era abituato, in preparazione di quella fatidica volta; per qualche ragione scelse proprio quella, e di occasioni ce n’erano state decine: credo che S. F. avesse bisogno di abituarsi all’idea, di filmare venti volte la scena nella sua testa, prima di girarla una volta per tutte.
Il comizio: le solite bugie, i ministri cafoni, l’orchestra frustrata, le ballerine, la gente in festa (quanti stipendiati?), e la polizia a controllare lo scorrere liscio dello spettacolo. Uomini in borghese, cecchini sui tetti, facce cordiali di grassi poliziotti appoggiati alle moto. Nel casino S. F. corse verso il Nano, dopo la fine dello show, aspettando che, come altre volte, il Primo Consigliere lo riconoscesse in mezzo alla folla di facce instupidite dall’applauso, dalle luci, dal caos. S. F. sapeva cosa fare. Qualche fotografo inquadrò l’ultimo sorriso bonario, falso e consapevole del Nano, l’ultimo atto della sua recita. Nell’istante in cui il suo sguardo contento e luccicante incrociò quello di S. F., oltre le transenne, il cannone era già puntato: una vecchia Parabellum raccattata chissà dove, troppo grande, troppo pesante in cima a quel debole braccio avvolto da un impermeabile frusto. Sei colpi sparati a distanza ravvicinata trasformarono il glorificato glorioso Nano in un cupo ammasso sanguinante, accartocciato tra le gambe sprovvedute dei gorilla armati fino ai denti.
La mente di S. F. si svuotò. Ebbene, quello era il momento atteso da mesi. Distruggere un simbolo, distruggere il Simbolo, ecco cosa voleva. Non gli importava di uccidere una persona, non gli importava della teatralità, della galera. Già, finire in una cella. Gli avrebbero dato l’infermità mentale, o lo avrebbero intervistato? Lo avrebbero, in via del tutto eccezionale, giustiziato? O avrebbe scritto un libro, nelle lunghe veglie dell’ergastolo? Il paese sarebbe andato avanti, non c’era da pensare che il Nano contasse così tanto, non avrebbero applicato la legge marziale… Quello che per S. F. era importante era la morte del simbolo. Era far tremate tutti coloro che a quel simbolo guardavano come un modello, tutti quelli in doppio petto, coi portafogli pieni e la grossa macchina nera, a sgambettare tra politica e alta finanza in cerca di non si sa che cosa, accumulando capitale e potere. La gente che aveva trascinato il Paese nel fango, ecco cosa pensava S. F., viaggiando per la sua città e vedendo crollare pian piano tutto ciò che gli era sembrato renderla degna di essere abitata e vissuta. Solo un evento come la morte del Nano, dell’uomo più solido del Paese, avrebbe potuto smuovere il torbido in cui tutti vivevano, far tremare i colossi di marmo – ridicoli, patetici colossi che arrivavano al metro e settanta grazie ai tacchi dei mocassini di marca – da cui tutto, ogni vita, dipendeva.
Questo aveva pensato S. F., nei lunghi mesi in cui imparava a sorridere di fronte ai suoi tiranni, e a premere il grilletto nel momento giusto e a non cedere al rinculo. E quando finalmente il caricatore fu svuotato, e il Nano ormai inerme sparì nella coltre difensiva e nera della scorta, in un frapporsi di elegantissimi gorilla, S. F. poté non pensare a nulla. Il Nano era sempre senza giubbotto antiproiettile, era uno dei suoi vanti e, una volta tanto, era anche verità. Già, questo fu l’ultimo pensiero di S. F.
La scorta personale del nano era pesantemente armata, ed erano sul luogo anche parecchi agenti delle forze di sicurezza. Di preciso non si è mai saputo chi fu a sparare; probabilmente fu fatto d’impeto, senza pensare che tanto la pistola dell’attentatore era rimasta senza munizioni, e che una volta eliminato il bersaglio era rimasto ben poco da temere; le guardie erano tutte bene addestrate, il colpo fu preciso e fatale. S. F. sentì solo più un calore immenso, improbabile, tanto forte da coprire qualsiasi dolore. Poi qualcuno spense la luce.
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